III domenica di Pasqua – 30 aprile

Atti 3,13-15.17-19; 1Giovanni 2,1-5; Luca 24,35-48 I brani del Vangelo, che si leggono in queste domeniche di Pasqua, tendono a farci capire quanto sia stato difficile per i discepoli di Gesù credere alla sua risurrezione. La morte era stata per loro una sconfitta troppo grande per sperare ancora. Stupiti e spaventati. Erano tornati da poco i due discepoli di Emmaus che, senza riconoscerlo, avevano parlato lungo la strada con Gesù risorto. Informano gli altri discepoli del fatto che l’hanno visto e “lo avevano riconosciuto nello spezzare il pane”. In quel momento Gesù “in persona” apparve in mezzo a loro e, dopo il saluto, disse: “Perché siete turbati. E perché sorgono dubbi nel vostro cuore?”. Infatti Luca ci fa sapere che i discepoli “stupiti e spaventati, credevano di vedere un fantasma”. Per noi, abituati alle cose concrete di questo mondo, è sempre molto difficile credere a qualcosa che viene dall’alto. Non sono realtà a noi familiari e, per molti, poco credibili. Anche Tommaso aveva detto la prima volta “se non vedo non credo”, mentre la fede è proprio il contrario: credere senza vedere. Si fonda, infatti, su quella parola di Dio che non mente. Da quella abbiamo la certezza di non essere in presenza di fantasmi, ma dentro una realtà ben concreta, anche se ancora non ne abbiamo un’esperienza personale. Che però fu concessa agli apostoli, perché fossero, anche per noi, i testimoni sicuri della risurrezione. Mangiò davanti a loro. I discepoli di Gesù, dobbiamo ammetterlo, erano gente molto concreta. Non si lasciavano facilmente ingannare da discorsi o da racconti fantasiosi. Prima di credere alla verità della risurrezione, volevano prove molto concrete. Gesù venne incontro a questa loro esigenza, sino al punto di mettersi a mangiare con loro. Quale prova maggiore si poteva dare di concretezza? Di fatto il suo comportamento prima stupì e poi convinse i discepoli, tanto che nella loro predicazione si dichiareranno convinti della risurrezione, dicendo, “dopo la sua morte noi abbiamo ancora mangiato con lui”. Non dicono solo l’abbiamo visto o gli abbiamo parlato, ma più di ogni prova, “abbiamo mangiato con lui”. Non ci sono fantasmi né illusioni, ma una porzione di pesce arrostito, che Gesù mangiò a tavola con loro. Così la nostra fede non può essere solo un sentimento, tanto meno una suggestione, ma la certezza di quanto è avvenuto un giorno nella storia di questa umanità che, per volere di Dio, non poteva andare perduta. A tutte le genti. Dopo quel primo momento di stupore e di incertezza dei discepoli, Gesù “aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e, nel suo nome, saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni”. Parole molto chiare che non ammettono equivoci. La missione di salvezza affidata da Gesù ai suoi discepoli è universale. Comincerà da Gerusalemme, ma dovrà giungere a tutte le genti, al mondo intero. I suoi contenuti sono: la conversione e il perdono dei peccati. Sarà questo il compito primario della Chiesa che, attraverso la predicazione e i sacramenti, dovrà sempre avere di mira il conseguimento dello scopo essenziale: conversione e perdono. Sono questi, infatti, i doni che ci sono giunti dall’Alto e sono stati affidati alla Chiesa, perché siano portati sino agli estremi confini della terra. Una missione non ancora compiuta, un’impresa che tocca a tutti noi portare a compimento.

Carlo Caviglione