Domenica 11 settembre 2005

Siracide 27,30-28,7; Romani 14,7-9; Matteo 18,21-35 Per chi è cristiano, e vuole esserlo sino in fondo, qual è l’impegno più difficile da affrontare? Forse non si è lontani dal vero se si risponde: quello del perdono, sino al punto da amare i propri nemici. Anche per questo il cristianesimo si presenta come una religione non facile. LE SETTE VOLTE. Un giorno è stato Pietro a interpellare Gesù su questo problema: “Quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. A Pietro forse pareva di essere stato generoso. Di fatto, la sua proposta superava già la misura di alcuni testi biblici che concedevano il perdono “fino a tre volte”. Ora però la misura di Gesù era smisurata, andava ben oltre, poiché quel “settanta volte sette” era un’espressione per dire: sempre. Il perdono non ha confini nel tempo e non si deve arrestare davanti a nessuno che abbia peccato contro di noi. E questo perché noi tutti siamo dei perdonati, da Dio, che con la croce del suo Figlio ha rimesso le nostre colpe, un debito enorme che noi non avremmo mai potuto saldare. PADRONE E SERVO. Gesù ha voluto far capire questa realtà con una parabola. Quella di un servo che si era indebitato con il suo padrone, in modo tale da non avere nessuna possibilità di rendergli il dovuto. Perché il padrone non vendesse lui, la moglie, i figli e quanto possedeva, lo pregò di avere pazienza con lui e, nel tempo, gli avrebbe restituito quanto dovuto. Ma il padrone fece molto di più e “gli condonò il debito”. Così non fece però il servo che, condonato, incontrò un altro servo che gli doveva una piccola somma e lo fece mettere in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Due pesi e due misure. La parabola mette in luce, nello stesso tempo, la grandezza d’animo del padrone e la meschinità del servo, che non ebbe nessuna pietà verso il suo prossimo. Non c’è nessuna memoria in lui del condono ricevuto che era enorme. La misericordia, dimostratagli dal padrone, non suscita in lui alcun sentimento di altruismo e di gratitudine. PERDONARE DI CUORE. La parte finale della parabola esprime una conclusione esigente. Il padrone venne a sapere del comportamento iniquo del suo servo. Lo fece chiamare e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito, perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il debito”. La conclusione della parabola è perentoria: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”. Non c’è scampo, non si fanno sconti a nessuno. Perdonare non è facoltativo, ma si tratta di un’esigenza essenziale. Un connotato che fa parte del DNA del cristiano, poiché si è messo alla sequela di Cristo. Lui, dalla croce, ha perdonato ai suoi crocifissori. Questo “do ut des” è concentrato, peraltro, nella preghiera del Signore, il Padre Nostro, nel quale chiediamo a Dio di rimetterci i nostri debiti, “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Carlo Caviglione