
Non ci sono strade, in Papua Nuova Guinea. E se qualcuna c’è, è impervia, sterrata, pericolosa. Eppure, “i papuani, almeno in questa zona, camminano tantissimo. Spesso a piedi nudi”. È una delle prime immagini che ci presenta suor Anna Pigozzo, missionaria della Fraternità della Trasfigurazione, 38 anni, originaria di Noale, della diocesi di Treviso. L’altra immagine è quella dai colori sgargianti di una natura primordiale, che scoppia di vita tra foreste inesplorate e molte varietà di volatili, tra cui l’uccello del Paradiso, uno dei simboli della bandiera. E, ancora, tradizioni millenarie e culture ancestrali, con 800 gruppi etnici e altrettante lingue, in un Paese che sta per celebrare i 50 anni della sua indipendenza.
“Nessuno sa quanti siamo”. Dopo i primi quattro anni nel Sud delle Filippine, suor Anna vive dal 2013 con altre cinque consorelle nella diocesi di Bereina, che si estende nella regione centrale per 20mila metri quadrati con una popolazione di 86mila abitanti. “In realtà, nessuno sa precisamente quanti siamo qui”, ammette la missionaria, che ci descrive “un territorio caratterizzato da una zona montuosa, raggiungibile dopo giorni di cammino, con sette parrocchie prive da anni di un sacerdote stabile”. I grandi fiumi, poi, durante la stagione delle piogge fanno il resto, con allagamenti e inondazioni che rendono difficile l’inizio dell’anno scolastico. Così, il paradiso della Papua Nuova Guinea mostra via via anche le sue difficoltà e contraddizioni. E franano, come le sue rocce, gli stereotipi del turista che vede solo bellezza e folklore.
- (Foto Anna Pigozzo)
- (Foto Anna Pigozzo)
Non è un paradiso. Suor Anna, in questi luoghi, è invece una pellegrina. Sa che, pur tra la ricchezza del patrimonio culturale, delle risorse minerali e dei terreni fertili, “la povertà materiale è profonda e visibile: per la corruzione, la criminalità e la violenza, gli abusi e l’altissimo tasso di mortalità (soprattutto infantile) dovuto alla mancanza di cure mediche di base”. La vera sfida, quindi, non è solo camminare con questi fratelli, ma aiutarli a farlo insieme. “Per loro, è familiare la fatica dell’andare e la gioia dell’arrivo, ma troppo spesso, tristemente, è più uno scappare da rivalità tribali, conflitti tra clan, divisioni e paure di vendette. Camminare da pellegrini, al contrario – in questo Giubileo e ogni giorno – potrà aiutarli a riconoscersi non più soli, ma parte della comunità e della Chiesa”.
“Essere missionari significa…”. Una Chiesa giovane, con poco più di 130 anni che “sta cercando di fare un salto importante: dalla prima evangelizzazione alla seconda, dove il messaggio evangelico entra più profondamente nella cultura, convertendola”. Papa Francesco, nel suo viaggio apostolico del 7 settembre 2024, ha parlato di “una grande speranza nel cuore… che dia il coraggio di intraprendere progetti di ampio respiro”. È la dimensione che suor Anna auspica per questo popolo “che si realizzerà pensando al di là della vita di sussistenza e sperimentando l’amore”. Non è facile in “un contesto ancora intriso di superstizione e magia, in cui Dio è visto come il giudice che punisce chi sbaglia, ma soprattutto in una cultura dominata da sospetto e sfiducia per le violenze subite”, qui viene in mente l’immagine del seminatore. “Essere missionari significa credere davvero nella potenza dei piccoli semi della Parola di Dio e con generosità uscire a seminare”.
Buabeni, nonostante tutto. Il fatto di essere donna e bianca – e quindi ai loro occhi inferiore, straniera e nemica – spesso ostacola l’approccio iniziale. Tuttavia, “basta poco per riconoscersi fratelli quando l’altro si sente accolto. Così succede con i papuani, che hanno nel sangue l’energia dei guerrieri, ma sono anche anime pure ed innocenti, capaci di riconoscere il bene grazie allo Spirito che è in loro”. E in quella che loro chiamano the land of the unexpected, la terra dell’inatteso, la vita delle Sorelle della Trasfigurazione scorre senza troppi programmi: tra un ripasso di tabelline e un incontro di catechesi, tra il programma di nutrizione e l’ascolto di una mamma incinta vittima di abusi. Anche se in ambiti diversi, ogni volta si apre la porta a qualcuno che reca con sé una ferita e un seme di speranza. Quella speranza – buabeni – che si legge “nei volti dei piccoli e dei più vulnerabili, sfigurati dalla violenza, che con umili lacrime si rialzano quando sperimentano di essere figli amati”. Non ha mai trovato finora un papuano che non creda in Dio, suor Anna. “Eppure, ne ho conosciuti pochi che riescono a trattare la moglie con rispetto o che siano disposti a perdonare anziché vendicarsi rischiando di essere esclusi dalla loro tribù. Ma, per fede, credo che ogni Sua Parola non ritornerà senza aver portato frutto”.
(*) Popoli e Missione