“In ogni speranza si nasconde la Speranza” (don Primo Mazzolari). Cosa c’è da sperare se si guarda al lavoro in tempo di Giubileo?
Le notizie giungono contrastanti.
Negli ultimi mesi il livello occupazionale in Italia è migliorato, ma non la qualità del lavoro, dal momento che molti salari rimangono inadeguati alle attese e al costo della vita (working poor). È aumentata la richiesta di lavoro in alcuni settori, con un mismatch importante, ma scoppiano a macchia d’olio crisi occupazionali senza precedenti.
Protagoniste sono spesso le multinazionali (Stellantis, Berco, Regal Rexnord, Beko…), ma non solo: il sito del ministero delle Imprese e del Made in Italy indica più di 30 tavoli di crisi attivi. Talvolta in nome del profitto degli investitori finanziari si preferisce delocalizzare in aree del mondo a basso costo di manodopera e a bassa frequenza sindacale.
Le famiglie piangono. Per molti lavoratori e lavoratrici si prospetta un futuro nero all’orizzonte. Rattristano e destano preoccupazione soprattutto alcuni modelli economici che calpestano le persone senza porsi problemi. Non sempre è la mancanza di richieste da parte del mercato a minacciare la chiusura. Più cinicamente è il gioco finanziario a lasciare sul lastrico persone e territori. Tra l’altro, molti professionisti hanno acquisito competenze che richiedono anni. Tali maestranze sembrano non servire più da un giorno all’altro, come se il lavoro fosse solo questione di costi e salari. L’“usa e getta” nei confronti delle persone rende evidente un progetto di economia incivile che ha molto di disumano. A questi atteggiamenti se ne aggiungono altri, per esempio in tema di sicurezza sul lavoro, con codici degli appalti aggirati o sempre più deboli, e frequenti subappalti “sospetti”.
La speranza è davvero sotto i tacchi?
Pure il lavoro giovanile non gode di buona salute. Diminuiscono i dati circa i “neet” (chi non studia né si trova in formazione professionale), ma il loro numero è al di sopra della media europea. Inoltre, l’era glaciale demografica e la fuga all’estero non fanno ben sperare per il domani. Il Rapporto italiani nel mondo 2024 curato dalla Fondazione Migrantes mostra che dal 2020 cresce il numero di chi sceglie di risiedere fuori dei confini nazionali (+11,8% dal 2020). Oggi esiste all’estero una comunità composta da oltre 6 milioni e 134 mila italiani: comunità sempre più giovane e dinamica. Il Sud resta la principale terra di partenza, ma non solo.
Dunque, che fare?
Dobbiamo saper cogliere i fiori tra le crepe dell’asfalto.
Ci sono imprenditori migranti che aprono partite Iva e ci provano. Ci sono giovani agricoltori che tornano alla terra con entusiasmo e stile innovativo. Ci sono start up che si fanno strada e fanno scuola. Ci sono cooperative sociali che creano opportunità per chi normalmente è escluso. Ci sono imprese che scommettono sulla sostenibilità. Ci sono imprenditori che si tengono stretti i loro dipendenti riconoscendo il valore delle loro competenze. Ci sono diocesi che continuano a investire sulla formazione giovanile “peer to peer” grazie al Progetto Policoro. Semi di speranza.
C’è speranza anche nel cambio culturale che porta giovani a dimettersi dal lavoro che non li soddisfa perché precario, sfruttato, indegno o pericoloso. Sono loro a sbattere in faccia ad adulti senza scrupoli il loro “le farò sapere”, che fino a ieri si sentivano rivolgere dagli addetti alle assunzioni. A un’economia che muove denaro h24 e che non conosce soste e ferie, i giovani stanno dicendo che il lavoro non è tutto. Conta ma non può diventare totalizzante! Vuoi vedere che la società convinta che “il denaro non dorme mai” sente di nuovo il bisogno di alternare festività e ferialità?
I giovani ci stanno facendo entrare dalla porta quello che abbiamo gettato dalla finestra. Possiamo riconoscere in questa esigenza di rallentamento, di riconoscimento della persona, di riposo dell’umanità un’istanza giubilare da raccogliere.
Rimane anche per l’economia e il lavoro la saggia indicazione che “il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27).
Torna a casa, speranza!
(*) direttore dell’Ufficio nazionale per i Problemi sociali e il lavoro della Cei