“La speranza non delude” è il titolo della Bolla di indizione del Giubileo 2025, segnato da due ricorrenze molto significative, anche per la missione: i 1700 anni del Concilio di Nicea, che ci ricordano l’importanza della prassi sinodale per “custodire l’unità del popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo”; e, “per una provvidenziale circostanza” (n. 17), la celebrazione insieme – cristiani d’Oriente e d’Occidente – della Pasqua, che avverrà proprio quest’anno il 20 aprile.
La prima ricorrenza è importante soprattutto perché ci fa presente – di fronte ai ripetuti tradimenti dello stile evangelico – la necessaria continua conversione dei missionari al principio cristologico della missione, senza il quale non c’è evangelizzazione. Detto altrimenti, i missionari sono “segni di speranza” solo se rimangono ancorati allo stile umile e povero della missione di Cristo, come ribadisce a più riprese il Concilio (cfr. Lg 8; Ag 5).La seconda ricorrenza è eloquente soprattutto perché ci invita a ridurre l’ambivalenza della prassi missionaria, presente anche nelle pagine più belle della missione. Basti pensare al pregiudizio anti-ecumenico e anti-religioso, che fino al Vaticano II condannava le altre Chiese e religioni ai margini della storia della salvezza, senza alcuna possibilità di collaborazione per il bene dell’umanità.
D’accordo con Spes non confundit, anche il Giubileo 2025 si connette con la categoria del pellegrinaggio: “Il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita…” (n. 5). Solo dei missionari “pellegrini”, viandanti, capaci di staccarsi dalla propria cultura, dalla propria patria, dalla propria famiglia, saranno in grado di avventurarsi nell’affascinante e rischioso viaggio alla scoperta di mondi sconosciuti già abitati dalla speranza, grazie all’azione e alla presenza dello Spirito, che precede l’arrivo e la presenza della Chiesa.
Basti pensare al ruolo del primo grande “movimento missionario”, quello monastico, dal secolo V al XII.
Spinti dal desiderio di santificarsi secondo la tipica forma del “martirio bianco” (l’ascetismo), i monaci – come nel caso più celebre dell’irlandese san Colombano e discepoli – abbandonavano il loro monastero e andavano di luogo in luogo ad annunciare la parola di Dio, “pellegrini per amore di Cristo”, senza fare più ritorno, come in un volontario esilio. Questo movimento missionario, come pellegrinaggio per amore di Dio e di Cristo, fu per molti aspetti fortemente innovativo sia per la santificazione personale, sia per l’evangelizzazione dell’Europa.
Ma la particolarità di quest’anno giubilare consiste nel porre “segni di speranza”, capaci di renderla reale, evidente, tangibile, non solo a livello personale, ma anche sociale; non solo in una parte del mondo, ma a livello globale. Nella selezione dei segni, la Bolla di indizione invita anzitutto a “porre attenzione al tanto bene che è nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza” (n. 7). I segni dei tempi, oltre ad esprimere l’anelito di tanta parte dell’umanità, chiedono di essere trasformati in “segni di speranza”. Come? Per esempio, osando la pace in tempo di guerra; non perdendo il desiderio di trasmettere la vita in mezzo all’inverno demografico; privilegiando la giustizia riparativa rispetto a quella punitiva per i detenuti ecc.
Meritano attenzione – per la sintonia con Lev 25,8-17 – soprattutto l’appello a costituire, con il denaro speso per le armi, un fondo mondiale per eliminare la fame e l’accorato invito a condonare il debito dei Paesi che non possono più ripagarlo: “Se veramente vogliamo preparare nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie, ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati” (n. 16).
Davvero la speranza non delude, ma ricolma i nostri cuori missionari!