Una Chiesa sinodale, aperta, in uscita, pronta a raccogliere le sfide complesse e articolate del mondo di oggi a partire dall’ascolto e dalla capacità di stare accanto alla propria gente. E’ il ritratto della comunità ecclesiale che, ognuno dalla propria angolatura, tracciano i futuri cardinali, alla vigilia del Concistoro di domani, in cui riceveranno la berretta dalle mani di Papa Francesco. Il Sir ne ha avvicinati alcuni, durante l’incontro organizzato in sala stampa vaticana. Mons. Natalio Chomalí Garib Chomali, di origine palestinese, è oggi arcivescovo di Santiago del Cile, e il suo primo pensiero è alle popolazioni in guerra, a partire dalla sua esperienza di sofferenza personale. “La guerra è la mancanza di riconoscimento della dignità di ogni essere umano, scaturisce dal non dare nessun valore alla vita umana, è il frutto dei fondamentalismi, anche religiosi, delle ideologie, del pensare che attraverso la violenza si possa ottenere qualcosa di buono. La violenza invece genera violenza, e gli esseri umani non imparano mai questa lezione”. Alla vigilia del Concistoro, mons. Chomali lancia un forte appello per
“porre fine alla guerra, a tutte le guerre, e alle iniquità che esse comportano.
La via da seguire è quella del dialogo e della pace, come quella che Cile e Argentina hanno siglato 40 anni fa grazie alla benevolenza di Giovanni Paolo II. Da allora è stato avviato un dialogo fecondo, non facile, ma che ci ha fatto molto bene”. Per quanto riguarda, in particolare, il futuro di Israele e della Palestina, l’auspicio dell’arcivescovo di Santiago è di “avviare un processo di dialogo partendo dal riconoscimento della possibilità di vivere in pace con due Paesi indipendenti e frontiere sicure”. In Cile, la sua testimonianza, “ebrei e palestinesi vivono e lavorano insieme da sempre, il loro è un rapporto molto forte”.
Dopo la crisi degli abusi e la visita di Papa Francesco – il ritratto della chiesa cilena – “è aumentata la consapevolezza non solo del fatto che non c’è spazio per gli abusi, ma che occorre generare luoghi di fraternità nel cuore della vita della Chiesa e della società.
La comunità ecclesiale è una presenza molto forte e rispettata nel Paese, la sua è una presenza pubblica importante, soprattutto per l’impegno sociale: in una società individualista e che insegna solo a competere e non a condividere, il suo ruolo consiste nell’insegnare a vivere non solo con gli altri, ma per gli altri”. “Un regalo immeritato del Papa, che va oltre le mie possibilità”: così mons. Vicente Bokalic Iglic, arcivescovo di Santiago del Estero e primate di Argentina, definisce la sua nomina cardinalizia, di cui ha appreso per caso da un vescovo che il 6 ottobre scorso stava ascoltando l’Angelus dalla televisione. Da resposabile di una diocesi che dista 1.500 chilometri da Buenos Aires, è molto estesa e costituisce una delle zone più povere del Paese, descrive il suo compito come una chiamata a
“collaborare e aiutare il Santo Padre con quello che siamo, a servizio di un orizzonte più grande che è quello della Chiesa universale”.
Il modello da seguire è quello di una Chiesa sinodale, che con il Sinodo che si è appena concluso “è già diventato un cammino, uno stile di vita nella Chiesa”. La Chiesa del futuro o sarà missionaria o non sarà: ne è convinto mons. Ignace Bessi Dogbo, arcivescovo di Abidjan, in Costa d’Avorio, secondo il quale
“il Sinodo ci ha insegnato che il popolo di Dio deve essere un popolo in missione,
perché non si può essere Chiesa rimanendo seduti a contemplare le cose belle che sono state fatte”. Parole, queste, confermate da uno dei protagonisti della recente assise sulla sinodalità, in cui ha tenuto le meditazioni alternandosi a Madre Ignazia Angelini. Parliamo di padre Timothy Radcliffe, predicatore domenicano famoso in tutto il mondo, secondo il quale “siamo ancora all’inizio del cammino sinodale, ma la Chiesa è già profondamente cambiata. Se seguiamo questa via, avremo solo benedizioni”. Tra le priorità, anche per lui c’è l’impegno della pace, che comincia dal cambiare il nostro sguardo:
“Bisogna guardare il proprio nemico in faccia. Noi siamo spesso abituati a considerare le persone come oggetti, ma se troviamo il coraggio di guardarli in faccia, ci rendiamo conto che non possiamo odiarli”.