“Rendere il mondo inclusivo significa non solo adattare le strutture, ma cambiare la mentalità, affinché le persone con disabilità siano considerate a tutti gli effetti partecipi della vita sociale”. Così Papa Francesco si è rivolto ai ministri partecipanti al G7 su inclusione e disabilità che si è svolto in Umbria dal 14 al 16 ottobre, ribadendo l’importanza di “operare insieme perché sia reso possibile alle persone con disabilità di scegliere il proprio cammino di vita, liberandole dalle catene del pregiudizio”.
Un impegno che la Chiesa italiana ha fatto proprio: dal 1991 a oggi, grazie ai fondi dell’8xmille, ha sostenuto 273 progetti in 45 Paesi per quasi 30 milioni di euro per l’inclusione, l’accessibilità, la vita autonoma, la dignità e la valorizzazione delle persone con disabilità che, secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono più di 1,3 miliardi, il 16% della popolazione.
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ribadisce il principio di uguaglianza e la necessità di garantire loro la piena ed effettiva partecipazione alla sfera politica, sociale, economica e culturale della società. Tuttavia, in molti Paesi la loro condizione è ancora vista come una punizione divina e le persone affette da disturbi fisici o psichici sono spesso costrette a nascondersi e a vivere ai margini della società, nascoste dai loro stessi familiari tra le mura domestiche a causa dello stigma sociale di cui sono diventate drammaticamente vittime. Nelle situazioni di crisi e di emergenza sono ancora più esposte a discriminazioni, allo sfruttamento e alla violenza e devono affrontare numerosi ostacoli per accedere all’assistenza umanitaria.
Così la vita quotidiana delle persone con disabilità, se lasciate sole e segregate anche dalle proprie comunità, diventa una lotta per la sopravvivenza.
Grazie all’impegno di molti continuano però a fiorire opportunità di rinascita che ridanno vigore alla speranza. Come è accaduto a Saw Sai, un ragazzo di Yangon, in Myanmar, che era considerato senza prospettive, perché affetto da paralisi cerebrale emiplegica destra con disabilità intellettiva. I genitori hanno conosciuto il progetto “Comunità inclusive”, avviato nel 2005, che mira allo sviluppo e all’inclusione sociale dei piccoli con disabilità nelle zone rurali e ha già dato sostegno a 150 bambini e alle relative famiglie in 64 villaggi. Saw Sai ha iniziato un percorso e, grazie ai terapisti e all’esercizio quotidiano, è subito migliorato dal punto di vista motorio. Ora segue anche specifici programmi educativi perché è interessato alla matematica e desidera imparare per aiutare i genitori che hanno un piccolo ristorante. Dopo aver frequentato gli incontri di sensibilizzazione, anche la famiglia è sempre più partecipe e coinvolta e ha compreso l’importanza dell’insegnargli a svolgere da solo le attività quotidiane, con calma e con i giusti ritmi.
Proprio il lavoro con le famiglie e con le comunità locali è fondamentale per innescare un cambiamento di mentalità, per far comprendere che garantire servizi adeguati alle persone con differenti abilità non è solo una questione di assistenza, ma di giustizia e di rispetto della loro dignità e delle loro capacità.
Ne è consapevole anche la famiglia di Berry, che vive ad Haiti, dove solo il 7% dei bambini disabili partecipa a un percorso scolastico: “la situazione di Berry, che a 2 anni ha iniziato a soffrire di una malattia che lo faceva cadere all’improvviso e non era più in grado di camminare, ci ha portati a conoscere ‘Akg’, un’associazione di comunità di Haiti. Partecipiamo sempre alle riunioni e alla formazione, che servono per aiutare i bambini a vivere meglio all’interno della famiglia e della comunità. Ora Berry frequenta la scuola pubblica di Mare Rouge e avrà la possibilità di trovare la sua strada”.
La stessa possibilità è stata offerta ai 638 beneficiari del progetto “Kanyama for all” in Zambia, anche questo realizzato con il contributo della Cei, che punta a favorire inclusione scolastica in 7 scuole di Kanyama e a sostenere le famiglie dei bambini e delle bambine con disabilità attraverso corsi di alfabetizzazione e di lingua dei segni per i genitori, e percorsi di empowerment economico per l’attivazione di attività generatrici di reddito. “In quest’ottica – racconta Andrew, istruttore di judo allo Shalom Centre – sono importanti anche le attività sportive, perché danno la possibilità agli studenti di conoscersi meglio, lavorare insieme, fare squadra ed eliminare le barriere. In particolare, il judo non è soltanto uno sport, è piuttosto prendersi cura gli uni degli altri, aiuta ad aprirsi alle relazioni, a trovare delle passioni e dei punti in comune”.
Piccoli semi e testimonianze che ci spingono ad andare avanti, nella certezza che – come ricorda Papa Francesco – “ogni persona è un dono prezioso per la società” e che una “cultura dell’incontro va sviluppata, specialmente con coloro che una falsa cultura del benessere tende a scartare”.