Abitiamo il confine. Nuovi spunti per un’esperienza di dialogo internazionale

Nel leggere la situazione internazionale e le questioni che essa pone oggi, emergono alcune parole chiave che necessitano di essere interpretate. Negoziato, coesistenza, sicurezza, pace, sviluppo sembrano ormai aspirazioni vuote rispetto ad un indicatore che sembra consolidarsi nei rapporti internazionali: il conflitto come metodo dell’agire e come mezzo di soluzione. Mediante il conflitto si agisce nei rapporti politici, economici, commerciali, culturali, per dare soluzione a questioni annose, a rapporti e relazioni sempre più ancorati intorno all'interesse del fare e dell’acquisire posizioni. La visione corrente e le prospettive future dei rapporti internazionali hanno trasformato in immagini espressioni come servizio, criteri come giustizia, metodologie come negoziato, ponendo un interrogativo sul loro significato. Ecco perché il conflitto è visto come “risolutore”

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Nel leggere la situazione internazionale e le questioni che essa pone oggi, emergono alcune parole chiave che necessitano di essere interpretate. Negoziato, coesistenza, sicurezza, pace, sviluppo sembrano ormai aspirazioni vuote rispetto ad un indicatore che sembra consolidarsi nei rapporti internazionali: il conflitto come metodo dell’agire e come mezzo di soluzione. Mediante il conflitto si agisce nei rapporti politici, economici, commerciali, culturali, per dare soluzione a questioni annose, a rapporti e relazioni sempre più ancorati intorno all’interesse del fare e dell’acquisire posizioni. La visione corrente e le prospettive future dei rapporti internazionali hanno trasformato in immagini espressioni come servizio, criteri come giustizia, metodologie come negoziato, ponendo un interrogativo sul loro significato. Ecco perché il conflitto è visto come “risolutore”.
Inquadriamo la lettura dei fenomeni che caratterizzano la scena internazionale – insicurezza, quadro demografico, sottosviluppo, distribuzione ineguale, violazioni di diritti e libertà, … – ponendoci sul confine; qualcosa di diverso dalle frontiere perché queste ultime costituiscono varchi, possibilità di passaggio anche se regolato, controllato, impedito, forzato. Il confine invece delimita, non pregiudica il passaggio, ma caratterizza e da forza alle identità, rendendole capaci di coesistere, integrarsi o di contrapporsi e combattersi. Abitare il confine non è condizione di neutralità, ma capacità (e volontà) di utilizzare una posizione che guarda l’altro e consente di porre le basi per la costruzione di un dialogo capace di perdurare nel tempo. L’incontro tra diverse identità impone di collocarsi sul confine e di là guardare come l’integrazione è spesso sostituita dall’assimilazione, da nuove schiavitù o dal regresso di civiltà espresso dai genocidi o dalle guerre evidenti e dimenticate.
A noi è data possibilità di abitare il confine. E questo significa poter costruire ponti tra caratteri differenti e diversità, tra ruoli individuali e ruoli comunitari, tra la volontà di integrazione o l’idea di sostituirla con una convivenza di facciata, tra l’assimilazione e il rispetto delle diversità culturali, tra la visione confessionale e la dimensione del credere, tra l’esclusione e la riconciliazione. Nell’abitare il confine ogni intuizione va intesa come percorso e non come traguardo.
La frammentazione che oggi esprime la vita internazionale non è l’effetto dei confini, ma piuttosto il dilagare di una mentalità che ritiene importante la relazione privilegiata (ieri era la clausola della Nazione più favorita), quella che si costruisce tra due o poche identità. Un approccio che può riguardare persone, comunità, paesi. Si allontana invece l’idea di una concertazione che di fronte a problemi comuni in grado di dare soluzioni comuni. Sul piano negoziale questo significa crisi del multilateralismo e dei suoi valori strutturali, o forse la sua evoluzione/involuzione espressa da nuove forme di attività multilaterale? Sono forme segnate dal fattore della tempestività, dell’impatto mediatico e da una buona dose di forza emotiva (Vertici, G7, G 20) che riescono solo a individuare le situazioni, ma non vogliono, né possono, governare le medesime. La differenza con l’attività continuativa delle Istituzioni permanenti multilaterali sta proprio nel rifiutare legami che impongono scelte, obblighi, risultati da conseguire in modo sistematico e continuativo. E così mentre le cancellerie degli Stati esultano per il successo mediatico – e solo limitatamente politico – del nuovo multilateralismo, c’è una umanità alla ricerca di legami di comunità, che opera per negoziare e superare i limiti dell’azione politica degli Stati e fa suo lo strumento del dialogo.
Anche per il fattore religioso, abitare il confine concorre a determinare modalità di incontro e non di chiusura, luoghi identitari per sfuggire alla contrapposizione, volontà di pacificazione e non semplicemente di pace. Solo così l’elemento religioso e non quello confessionale, può porsi come strumento positivo per la costruzione di una diversa dimensione internazionale.
Il credere, oggi, è abitare il confine.

(*) ordinario di diritto internazionale alla Pontificia Università Lateranense