Oggi la diocesi di Roma celebrerà l’assemblea con il suo vescovo, papa Francesco, come momento conclusivo del programma di celebrazioni per il cinquantesimo anniversario del convegno “La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella città di Roma”, che si tenne dal 12 al 15 febbraio 1974 ed è passato alla storia come convegno sui “mali di Roma”.
Si è trattato di un vero e proprio percorso, che ha impegnato i diversi Settori della diocesi e molte realtà ecclesiali, chiamato “(Dis)uguaglianze”, a sottolineare quello che è il più grande dei “mali” della Città Eterna. Iniziato il 19 febbraio con un convegno nell’Aula della Conciliazione, che ha voluto in particolar modo fare memoria di quanto avvenuto cinquant’anni prima, il cammino di approfondimento e riflessione è proseguito con una serie di incontri dedicati a diversi ambiti dove più forti sono le dinamiche di esclusione e disparità: la scuola, la sanità, l’abitare, il lavoro. Incontri che si sono svolti in luoghi periferici e altamente simbolici: la sede succursale dell’IIS Edoardo Amaldi a Castelverde; il policlinico di Tor Vergata; il residence Bastogi; la cooperativa “La Nuova Arca” a Castel di Leva.
Che cosa rappresenta oggi il Convegno “I mali di Roma”? Perché celebrarlo in modo così partecipato e desiderato?
Se il ricordo coinvolge un numero così ampio di persone, nella Chiesa e in molteplici ambienti e anche tra tanti singoli cittadini, alcuni nemmeno nati nel 1974 o giovanissimi, è perché in qualche modo quell’avvenimento storico ci parla ancora.
Abbiamo celebrato questo anniversario nel mezzo del cammino sinodale della nostra Chiesa: per due anni si è proceduto all’ascolto della città – le sue grida – a cui è seguita una fase di discernimento. Si arriva adesso alla fase sapienziale, quella delle proposte, e sicuramente faremo tesoro di questa esperienza guardando al presente per attuare tre suoi insegnamenti. Quello pastorale, di una comunità corresponsabile nella Chiesa e nella città; il secondo è la capacità di leggere e interpretare la realtà, dal punto di vista dei poveri, di chi è ai margini, fino a farne una conoscenza comune e condivisa; un terzo riguarda il metodo, la partecipazione diffusa in un processo aperto alle comunità ecclesiali, alle reti della società civile e ai diversi poli di responsabilità, nella chiesa e nella città.
Il tema di allora che oggi più ci interpella è quello del rilancio della partecipazione e, soprattutto, della speranza: aiutare i romani a trovare nuove motivazioni verso l’impegno e la corresponsabilità e a riscoprire l’orgoglio di appartenere ad una delle città più belle del mondo, quanto a cultura, a tradizioni religiose e civili e a calore umano. È l’unica strada percorribile per evitare che la complessità del nostro tempo prenda il sopravvento, esaltando quel paradigma economico-finanziario e tecnologico che mette in discussione il valore assoluto di ogni vita umana e attribuisce ai poveri la responsabilità della loro condizione.
Ridare speranza alla città significa però anche tracciare chiari percorsi di cambiamento perché sono troppe le condizioni di violazione dei diritti delle persone, in particolare quelle più fragili, che richiedono un’opera di giustizia e di tutela della dignità delle persone.
Dalle assemblee nei settori sono emerse alcune forti grida di dolore – il volto più concreto di quelle richieste di giustizia e di carità rimaste spesso disattese per decenni – riassumibili in un’unica e profonda denuncia delle troppe disuguaglianze che Roma vive.
Non sono mai mancati i cosiddetti “germogli di speranza”, cioè quegli esempi virtuosi da cui ripartire per cercare di risolvere, almeno in minima parte, alcuni di quei “mali” che, oggi come cinquant’anni fa, affliggono la città di Roma. «Gli incontri vissuti nei quattro ambiti – ha detto monsignor Baldo Reina, vicario generale della diocesi di Roma – ci hanno rafforzato nella convinzione che è quanto mai necessaria la presenza della Chiesa nel dibattito pubblico. Lo dice anche san Paolo nella lettera ai Filippesi: i cristiani si comportino da “cittadini degni del Vangelo”. Non abbiamo la pretesa di risolvere tutto, ma possiamo offrire il nostro contributo, il nostro sguardo profetico e le nostre proposte di speranza, in un’ottica di collaborazione con le istituzioni civili e in particolare con il mondo del volontariato».
Andare oltre il ricordo, significa quindi impegnarsi tutti per far diventare Roma “città della speranza”, secondo l’auspicio di papa Francesco. Un percorso che sappia “ricucire lo strappo”, questo il tema dell’assemblea di venerdì prossimo, per superare le tante città “parallele” che vivono nello stesso luogo e non si incontrano – gli italiani e gli stranieri; i residenti e i non residenti; i giovani e dagli anziani; gli uomini e le donne -, ma che sia caratterizzato da un approccio interculturale e intergenerazionale in una metropoli fatta di persone e di famiglie provenienti da tanti paesi nel mondo che sotto lo stesso cielo vivono ormai le stesse criticità o difficoltà.