Quando diciamo caporalato parliamo di migliaia di braccia rubate dall’agricoltura. Sequestrate, sfruttate senza pietà. Come il povero braccio di Satnam Singh, il giovane indiano diventato simbolo di tanti altri lavoratori oppressi in questa calda estate 2024. Quel braccio strappato da un macchinario agricolo e poi abbandonato dentro una cassetta per la frutta come un semplice scarto di produzione, mentre Singh moriva dissanguato all’angolo di una strada, è un’immagine che racconta, più di mille spiegazioni, un sistema economico svuotato di qualsiasi etica. Quel braccio, quella mano amputata, devono darci oggi uno schiaffo morale. Devono darci una mano a riflettere su questo svuotamento, questa emorragia di umanità.
Quando diciamo caporalato parliamo di razzismo. Di violenza. Di schiavismo. Bisogna essere chiari su questo, per non credere agli alibi accampati da certi imprenditori senza coscienza. “È colpa della stagionalità del lavoro, della burocrazia che soffoca le imprese, della grande distribuzione che impone prezzi al ribasso”. Certo, va considerato anche il contesto con le sue innegabili storture. Ma se per stare sul mercato un’azienda ha bisogno di sfruttare le persone con metodi criminali, significa che quel settore produttivo o commerciale è marcio alla radice, poiché i profitti che genera sono incompatibili coi diritti umani.
Oggi ci sono circa 230 mila lavoratori impiegati irregolarmente nelle campagne italiane. Secondo il rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto, la paga media è di 20 euro per una giornata che va dalle 10 alle 14 ore lavorative. Ma c’è anche chi di euro ne riceve 10 soltanto oppure nemmeno uno, perché quei pochi spiccioli deve restituirli al caporale come pagamento per il trasporto verso i campi, una bottiglietta d’acqua e un panino. Le poche ore di riposo si passano in baraccopoli o cascine diroccate senza servizi, lontane dagli occhi di chi non vuole vedere questo scandalo.
Il dramma di Satnam Singh, che ci ha profondamente colpiti, è solo una delle terribili storie di abuso che ritroviamo simili ovunque in Italia.
E oltre al mondo agricolo coinvolgono l’edilizia, le manifatture, i servizi di trasporto e logistica. Nel solo territorio di Latina sono state decine, in questi anni, le denunce e le inchieste per caporalato. I magistrati hanno portato alla luce reti criminali finalizzate all’ingresso e allo sfruttamento di lavoratori stranieri, e complicità nello smercio illegale di farmaci usati su di loro come doping contro la fatica. Altrove, sono stati individuati gruppi in grado di ricattare i piccoli corrieri nel settore sempre più lucroso e opaco delle consegne. Mentre di recente sono emerse forme di schiavitù persino nei pregiatissimi vigneti delle Langhe, dove si raccolgono le uve per produrre vini fra i più costosi al mondo.
Le norme per arginare tutto ciò ci sarebbero. Nel 2016, su pressione dei sindacati e di molte associazioni fra cui Libera, è stata approvata la Legge 199, detta “anticaporalato”. Oltre alle sanzioni per chi assume manodopera illegale, prevede politiche attive di contrasto al lavoro nero, l’istituzione di efficienti forme di trasporto e una Rete del lavoro agricolo di qualità, dedicata alle aziende che dimostrano di avere a cuore il benessere dei dipendenti. Ma come spesso accade, molte previsioni rimangono sulla carta per carenza di risorse adatte a renderle operative. Nell’Agro pontino, ad esempio, ci sono 22 ispettori del lavoro a fronte di oltre 7 mila aziende agricole: le buone leggi non bastano se mancano gli investimenti strutturali e i funzionari pronti a farle rispettare!
Non solo. Esistono cattive leggi che giocano contro la 199 in maniera sleale, in particolare le pessime norme sull’immigrazione che si sono succedute negli anni, e oggi confinano tante persone migranti in una trappola d’illegalità permanente. Se la legge mi priva del semplice diritto di “esistere” sul suolo italiano, come potrà tutelarmi negli altri miei diritti di base? E se non ho diritti in quanto essere umano, come potrò rivendicarli da lavoratore, o da inquilino, o da malato?
La verità è che il caporalato s’innesta su altri crimini, che lo precedono.
Un tempo erano le disuguaglianze estreme delle campagne, dove masse di diseredati lavoravano i latifondi dei ricchi per una paga di sopravvivenza, senza prospettive di migliorare la propria esistenza né quella dei propri figli. Adesso è il razzismo diffuso, rivendicato da alcuni, inconfessato ma radicato in tanti altri, che detta la linea a livello culturale, politico e legislativo. Producendo situazioni d’ingiustizia che ricordano le antiche forme di schiavitù, con persone che se formalmente non appartengono ai datori di lavoro, nei fatti li chiamano “padroni” – come abbiamo sentito dire dai compagni di Satnam Singh – e vivono completamente alla loro mercé.
Cosa fare per non essere complici? Dobbiamo avere il coraggio di scegliere soltanto consumi compatibili con la dignità delle persone: perché più basso è il prezzo che paghiamo noi, più alto rischia d’essere quello pagato dai lavoratori. Dobbiamo avere la forza di denunciare le complicità agli alti livelli: dagli imprenditori “presentabili” che rifiutano di vigilare sulle assunzioni in subappalto, agli amministratori “ciechi” che non vogliono rovinare la reputazione dei loro territori, fino ai manager della grande distribuzione che strozzano le produzioni agricole sostenibili.
Servono più occhi lucidi, ma non di commozione passeggera: di consapevolezza rispetto alle aberrazioni del sistema. Servono più braccia tese, ma non per un aiuto caritatevole a chi è sfruttato: per smontare le false rappresentazioni di un capitalismo predatore, e costruire insieme un sistema economico più equo e più rispettoso dell’umano.
(*) pubblicato su “Vita Pastorale”