“Non ci deve più essere la concorrenza al ribasso, prodotti ottenuti con lo sfruttamento del lavoro o per il quale l’ambiente non è tutelato. Serve creare incentivi rivolti al lavoro degno”. Ne è convinto Leonardo Becchetti, professore ordinario di Economia politica presso l’Università di Roma Tor Vergata, con il quale il Sir ha voluto approfondire la tematica del lavoro – diritto a fondamento della convivenza civile e sociale – nell’ambito della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia che si sta svolgendo a Trieste sul tema “Al cuore della democrazia”.
“La Costituzione ci porta al cuore della democrazia: fonda la Repubblica sul lavoro, non sul voto”, ha ricordato ieri mattina Filippo Pizzolato aprendo la sua relazione proposta ai delegati. Oggi però il lavoro è sempre meno considerato come fattore decisivo alla costruzione della vita economico-sociale del Paese. Professore, dalla Settimana sociale di Cagliari (nella quale di parlò di lavoro “libero, creativo, partecipativo, solidale”) a quella di Trieste è cambiato qualcosa nel Paese?
Il problema è sempre molto variegato, ci sono fattori di ostacolo che sono molto forti. Il mercato del lavoro è polarizzato, ci sono lavoratori high-skilled (con competenze specifiche, ndr) e low-skilled (con competenze basiche, ndr), ci sono tantissimi lavoratori poveri… E le cause sono profonde: la concorrenza è verso il basso. Oggi ci sono alcune risposte che possono cominciare ad essere interessanti: innanzitutto le buone pratiche, perché
le filiere non sono tutte uguali e dal 2026 l’Europa introdurrà il passaporto digitale del prodotto, che è una cosa molto importante: vuol dire col QR Code – che ormai usiamo tutti – potremo sapere da dove viene il prodotto, con quale qualità di lavoro e se è stato fatto sfruttando lavoro minorile.
Questo sarà un fattore molto importante sia per il “voto con il portafoglio” dei cittadini ma anche per stabilire delle regole. Poi è fondamentale, lo chiedemmo anche a Cagliari, spingere sui cosiddetti meccanismi di adeguamento alla frontiera, come il Cbam che adesso è stato introdotto dall’Unione europea, ma solo per le questioni ambientali.
Non ci deve più essere la concorrenza al ribasso del commercio internazionale:
se arriva un prodotto da Paesi terzi ottenuto con lo sfruttamento del lavoro o per il quale l’ambiente non è tutelato, quel prodotto deve essere tassato con un dazio molto forte alla frontiera.
Il lavoro non si crea per diritto. Ma è così difficile crearlo rispettoso dei diritti?
In Italia è più difficile, perché il nostro Paese ha una specializzazione produttiva che lo schiaccia un po’ sui salari bassi: quelli reali non sono aumentati negli ultimi decenni. Questo è avvenuto perché siamo molto specializzati nel turismo e nella ristorazione, in servizi a bassa produttività e siamo spesso contoterzisti, componentisti. Ci sono tante aziende piccole e medie, molto creative, molto innovative, che però non sono le grandi aziende che assumono lavoratori high-skilled. Questo, purtroppo, è un problema rilevante che fa parte del nostro DNA, della nostra specializzazione.
Tutti i mesi si attendono e si commentano i dati sull’occupazione. Gli ultimi forniti dall’Istat tre giorni fa parlano di 17mila occupati in meno a maggio e 462mila su base annua. Al di là della flessione registrata, non è limitante ragionare solo sui numeri e non sulla qualità (lavoro povero, part-time involontario…). Si può pensare a qualche indice per rilevare la qualità del lavoro e dell’occupazione?
Assolutamente sì, già lo facciamo. Col Corriere della Sera da tre anni abbiamo istituito il Premio “BESt work life” che attribuiamo alle migliori aziende.
Con “Next” abbiamo dei sistemi di rating che misurano la qualità del lavoro e che sono stati costruiti dai portatori di interesse assieme ai sindacati. Ormai le metriche ci sono, il problema è quello del fatto che queste metriche rendano competitivi i prodotti ottenuti con un lavoro degno.
Questo dipende molto dalle nostre scelte, dipende dalle regole di policy… Teniamo conto che poi un altro grosso cambiamento del mercato del lavoro di oggi è il mismatch:
siamo entrati in una fase nella quale a mancare non sono i posti di lavoro ma sono i lavoratori ad essere rari. In alcuni settori cominciamo ad avere fame di lavoratori: penso – per esempio – al settore sanitario, nel quale mancano 60mila tra medici e infermieri.
Continua lo stillicidio dei morti sul lavoro. Come agire per contrastarlo? E poi in che modo i cittadini, ognuno di noi, può partecipare, agire affinché si affermi un’occupazione dignitosa e in sicurezza?
Si fa sempre l’appello all’aumento degli ispettori e dei controlli, ma io ci credo poco.
Oggi abbiamo strumenti diversi: ci sono tante filiere “caporalato free” che conosciamo attraverso una forma di comunicazione migliore sui prodotti;
siamo in grado di scegliere, possiamo scegliere prodotti dietro ai quali non ci sono situazioni lavoratori sfruttati come nel caso di Satnam Singh. Per favorire un nuovo paradigma dobbiamo creare quegli incentivi con le regole di aggiustamento alla frontiera, perché la concorrenza non sia al ribasso sul costo del lavoro, ma i prodotti col lavoro degno vengono apprezzati.
Con l’avanzare dell’impiego delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale, si aspetta una prossima Settimana sociale che torni ad affrontare sfide e criticità del lavoro?
È probabile, potrebbe essere dedicata al lavoro nella transizione ecologica e digitale. Già oggi sappiamo che l’intelligenza artificiale ha innescato un processo di creazione e distruzione di lavoro schumpeteriano molto accelerato. Sappiamo anche che il saldo sarà positivo alla fine, cioè si creeranno più posti di lavoro, ma molte persone faranno fatica a riconvertirsi dal vecchio tipo di lavoro al nuovo.
Il problema grosso da gestire sarà quindi quello delle transizioni, della formazione permanente e della riqualificazione dei lavoratori, anche del sostegno di welfare nei momenti di difficoltà.