“Il contributo più alto che diamo al Paese sono i nostri studenti, i nostri laureati. Sono i nostri migliori ambasciatori”. Elena Beccalli, dal primo luglio nuovo rettore dell’Università Cattolica, ne è così convinta che il suo primo atto lo ha voluto proprio dedicare alle studentesse e agli studenti inviando loro una lettera, per invitarli a vivere questo percorso universitario da protagonisti. Un piccolo gesto, spiega in questa intervista, ma che vuole mostrare anche uno stile di leadership femminile. “Ne sento la responsabilità, soprattutto pensando che due terzi dei nostri iscritti sono ragazze, una media leggermente superiore al dato nazionale”.
Lei è la prima donna alla guida dell’ateneo dei cattolici. Come affronta questa nuova esperienza accademica?
La presenza femminile c’è stata sin dalla nascita del nostro ateneo, con la beata Armida Barelli, cofondatrice della Cattolica. Ribadisco che vivo questo passaggio sentendo grande responsabilità, ma anche convinta che una leadership femminile possa essere anche occasione per un cambio di stile e con l’attenzione a fattori importanti come l’inclusività o il benessere della comunità accademica. Del resto anche ricerche scientifiche hanno dimostrato che una guida al femminile in imprese e Istituzioni crea valore nelle organizzazioni cui opera.
La sua nomina arriva dopo la tragica scomparsa del suo predecessore, il professor Franco Anelli. Quale ricordo porta con sé, avendo vissuto quel rettorato come preside di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative?
Porto con me un senso di grande riconoscenza e gratitudine per quanto fatto dal rettore Anelli nell’ultimo decennio, realizzando alcune importanti iniziative e progettualità. Come la riconversione della Caserma Garibaldi, o la costituzione della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli. La sua scomparsa è stata una prova per la nostra Università. In quei difficili giorni, però, abbiamo raccolto numerosi messaggi di vicinanza a testimonianza della riconoscenza e dell’affetto per il rettore e per la Cattolica. La nostra comunità ha mostrato un senso di forte appartenenza. I momenti di preghiera sono stati un’occasione per toccare con mano quell’identità che da sempre caratterizza il nostro ateneo.
Dopo un quadriennio ricco di celebrazioni per i 100 anni della Cattolica, quali elementi di questa eredità coglie oggi nell’ateneo e come possono diventare una spinta per il prossimo quadriennio?
In primo luogo l’interdisciplinarietà, con la capacità di dialogo e confronto tra i diversi saperi, rappresentati nelle 12 facoltà: possiamo ora proiettarla verso la transdisciplinarietà, con progetti di ricerca e corsi di laurea sempre più trasversali tra le discipline. Il secondo aspetto è l’invito ai docenti ad alimentare il circolo virtuoso tra didattica e ricerca, senza dimenticare la nostra cifra distintiva di comunità educante.
Come intende procedere?
Con metodo orientato alla collegialità e al coinvolgimento del corpo docente e di tutte le componenti della comunità accademica. Ciò significherà per esempio valorizzare un organo come il Senato accademico, che raduna tutte le facoltà. È il luogo ideale per costruire nuove forme e nuovi spazi di confronto.
Quali sono i campi che ritiene prioritari in cui l’università è chiamata a dare il proprio contributo?
Per vocazione siamo una università dove il dialogo e il confronto devono essere aperti, liberi, interdisciplinari. Il mio intento è fare in modo che il nostro ateneo sia un bacino naturale a cui possano attingere società civile, le istituzioni, il mondo del lavoro e la Chiesa italiana e universale. Mi piacerebbe che la Cattolica diventasse la miglior università “per” il mondo e non “del” mondo, che vuol dire essere un ateneo al servizio del bene comune a partire da chi è ai margini. Ecco allora la necessità di una collaborazione tra ricerca e didattica per incidere con il loro risultati sulla terza missione. Aiutare a porsi le domande giuste sulle questioni prioritarie di oggi. Un contributo di pensiero che nasce da una ricerca di qualità, che impatta anche nel dibattito politico e pubblico.
Ce n’è bisogno: in questi giorni la Chiesa italiana sta vivendo l’appuntamento delle Settimane sociali dei cattolici in Italia, evento ecclesiale a cui la Cattolica non ha fatto mancare la propria voce e che è proprio dedicato al tema della partecipazione democratica.
Da sempre il cammino delle Settimane sociali e della Cattolica sono intrecciati e non solo per i nostri legami con il beato Toniolo. Non solo la presentazione dell’edizione numero 50 è avvenuta proprio in Cattolica, ma anche numerosi nostri docenti, io compresa, siamo presenti a Trieste. Diverse ricerche sono state condotte proprio in Università Cattolica e ora diventeranno contributi su cui confrontarsi e ragionare a Trieste. Penso alla ricerca su giovani, partecipazione e democrazia, o quella dedicata a un’economia capace di futuro.
Sono temi di assoluta urgenza: come può la Cattolica aiutare i giovani a vincere questa disaffezione verso l’impegno alla partecipazione?
Da professoressa che ha modo di incontrare gli studenti in aula non vedo nei giovani tutta questa apatia. Certo il nostro mondo può essere particolare, ma ho osservato anche nei nostri giovani il desiderio di essere protagonisti. E quando avviene troviamo tantissima disponibilità in loro. È un punto nodale: dobbiamo rendere gli stessi giovani protagonisti. È quello che ho voluto esprimere nella lettera aperta ai nostri iscritti affinché vivano pienamente le offerte dell’ateneo e siano capaci di essere al servizio degli altri.
Che cosa può trasmettere l’università per aiutarli a emergere?
Il sapersi continuamente interrogare sulle questioni fondamentali. Dobbiamo aiutare i nostri giovani a sapersi porre le domande giuste per guardare alle sfide che ci aspettano o che il mondo ci pone davanti. La Cattolica non può e non deve essere una semplice “fabbrica di laureati”, anche se preparati al meglio. Sa di dover offrire loro una formazione integrale, trasmettendo loro valori, che facciano poi la differenza quando andranno nel mondo del lavoro. Sogno laureate e laureati ben preparati nel loro campo, ma sempre più consapevoli che le loro scelte avranno delle ricadute e, dunque, interessati a valutarle, magari per trovare correttivi se necessari.
In tutto questo la dimensione “cattolica” dell’ateneo come può aiutare?
Il percorso che ho indicato è nel Dna di un ateneo cattolico come il nostro. Già padre Gemelli definiva l’ateneo “un laboratorio nel quale maestri e scolari collaborassero a indagare nuovi veri e a rivedere le questioni più discusse”. Anche oggi questo è l’impegno che quotidianamente portiamo avanti, chiamati a proporre adeguati modelli di pensiero secondo la specificità di ogni disciplina con una spirito che è, nello stesso tempo, libero e orientato alla ricerca della verità nel rispetto di tutti.
Cosa può offrire e proporre un ateneo cattolico in una società sempre più secolarizzata?
C’è l’approccio integrale di cui parlavo prima. E poi la dimensione spirituale, grazie anche all’azione congiunta del suo assistente ecclesiastico generale con gli assistenti pastorali e ai docenti di teologia. In occasione del centenario abbiamo visto anche la nascita di una comunità francescana proprio all’interno dell’ateneo, un sogno di padre Gemelli. È anche dall’affiancamento tra dimensione spirituale e formazione tecnica rigorosa che si può sviluppare quello che si chiama “spirito critico”, molto richiesto e apprezzato anche dal mondo del lavoro, visto che oltre il 90% dei laureati trova un impiego a un anno dalla laurea.
Sin dalle origini la Cattolica non ha mai nascosto l’idea di preparare anche una classe dirigente per l’Italia. Cosa serve oggi a un ateneo per diventare vivaio delle future classi dirigenti?
Mi piacerebbe dare vita a una scuola d’eccellenza che riunisca tutte le discipline, in modo da offrire agli studenti un percorso formativo interdisciplinare completo, individuando piste di lavoro sui temi più urgenti. Un percorso formativo di alto livello in cui poter anche immaginare la formazione di una classe dirigente.
Quali passi nel campo dell’internazionalizzazione?
Estendere gli accordi per il potenziamento dei percorsi di doppia laurea (dual degree) per studenti in Italia e all’estero – oggi ne sono attivi 37 -; promuovere l’ampliamento degli accreditamenti internazionali per potenziare percorsi di studio e raggiungere migliori posizioni nei ranking; alimentare una rete di partnership strategiche nelle aree più povere del pianeta, in particolare la regione del Mediterraneo e l’Africa.
Misure per frenare la “fuga dei cervelli”?
Più che demonizzare la fuga, bisogna creare dinamiche circolari, in cui ci sia chi va e chi viene. Per rendere un ateneo attrattivo ci sono molti fattori, compreso il costo dell’abitare. Che soprattutto a Milano è altissimo. Lavoriamo per un’università accessibile a tutti. Per sostenere gli studenti con il diritto allo studio la Cattolica dal 2011 ha investito ben 21 milioni di euro. Nello specifico, il costo dell’abitare è un tema che affrontiamo in tutte le città in cui si trovano le nostre sedi. Penso che in una città come Milano sarebbe necessario sedersi attorno allo stesso tavolo – atenei, Comune, istituzioni – per fare sistema. Credere di poter risolvere la questione unilateralmente non è possibile: l’anno scorso con il Consiglio comunale abbiamo promosso un incontro dedicato alla finanza, credo possiamo pensare a un’iniziativa analoga sull’abitare.
(*) Avvenire