Per riparare a un danno non basta solo la volontà di chi l’ha commesso, ma serve anche la disponibilità ad accogliere da parte di chi il torto l’ha subito. Da questa base partono le fondamenta della giustizia riparativa, recentemente regolata dalla riforma Cartabia, sulla quale la Caritas italiana ha dedicato un percorso costituito da più tappe in varie parti di Italia. Alcune delle iniziative sono state illustrate in apertura del convegno promosso dalla stessa Caritas, in programma fino a domani a Roma, in cui non sono state tralasciate le criticità.
“La giustizia riparativa è un paradigma”, sottolinea Patrizia Patrizi, ordinaria di Psicologia giuridica e pratiche di giustizia riparativa presso l’Università di Sassari, presidente dell’European forum for restorative justice. “Dobbiamo ripeterlo – continua – perché il cambiamento è difficile. Non è un modello e non è limitato a un sistema penale, se lavoriamo con le comunità riusciamo ad adottare il cambiamento”. A novembre dello scorso anno, in occasione della Settimana internazionale della giustizia riparativa, tenuta a Tallinn in Estonia, sono stati presentati gli eventi italiani, molti organizzati da Caritas: “I progetti – riconosce Patrizi – hanno riscosso molto interesse. Bisognava iniziare e questo ha portato un cambiamento nel territorio italiano”. La docente spiega inoltre i passi necessari per attivare il paradigma della giustizia riparativa: “Invece di allontanare ed escludere chi ci minaccia, occorre mettere insieme per alleviare la sofferenza attraverso il dialogo in tutti i luoghi della nostra vita”.
Durante lo scorso anno, Caritas ha promosso un progetto sperimentale, in collaborazione con la Scuola romana di psicologia giuridica PiscoIus, che ha coinvolto otto Caritas diocesane, impegnate in un percorso di 87 ore di formazione, suddivise in cinque appuntamenti residenziali, ai quali se ne sono aggiunti dieci online di confronto e crescita. Le otto iniziative hanno complessivamente attivato, nei propri territori, 137 diversi percorsi, realizzando 203 incontri di sensibilizzazione, 356 di formazione e 94 interventi di giustizia riparativa, per un totale di più di 1.580 ore di attività. “L’obiettivo è stato abbattere il muro di indifferenza che esiste fra gli istituti penitenziari e il resto del territorio”, racconta Valentina Ilardi, referente del progetto nella diocesi di Napoli. Per l’area di Agrigento, parla Annalisa Putrone: “Ci siamo trovati in un contesto che non conosceva la giustizia riparativa e nel momento in cui le persone ascoltavano abbiamo assistito a un cambiamento tangibile. C’è stata una apertura all’ascolto, una crescita dell’interesse, dalle parrocchie alle scuole, agli istituti penitenziari. Siamo partiti da una attività teorica a una più pratica. L’esperienza ci ha consentito di comprendere che il percorso è difficile ma possibile”.
In tutte le testimonianze, emerge l’esigenza di fare conoscere l’istituto della giustizia riparativa e di coinvolgere le persone. “La competenza nella gestione del conflitto non è degli esperti ma, giocata in maniera diversa, da tutte le persone che partecipano alla risoluzione del conflitto. L’importante è che l’errore venga riconosciuto, per affrontarlo in maniera diversa”, ricorda Andrea Molteni, sociologo della Caritas ambrosiana. “La comunità su cui si lavora – spiega – è territoriale, ossia vive dentro dei confini definiti, oppure è una comunità di relazioni perché le persone sono legate da scopi o dall’obbligo di ricambiare un dono. Le comunità non sono solo un paradiso perché possono essere identitarie e espulsive verso le persone straniere o le persone che commettono reati. Non è un idillio e va capito come si usa il termine ‘comunità”.
Sulla necessità di coinvolgere nei progetti di formazione i docenti delle scuole, interviene Maria Costanza Cipullo, referente per l’educazione alla salute alla legalità e all’educazione finanziaria del del ministero dell’Istruzione e del Merito. “Sono contenta – afferma – che facciate degli interventi con i ragazzi ma credo che dovremmo parlare di più con i docenti che hanno in mano la situazione, per dare loro gli strumenti per gestire i conflitti e insegnare ai ragazzi a stare insieme. Come ministero, con il protocollo stretto con la Caritas stiamo portando avanti nelle scuole l’ascolto e la conoscenza”.
Secondo Gherardo Colombo, presidente della Cassa delle ammende, intervenuto con un videomessaggio, con la giustizia riparativa le persone coinvolte riescono a comporre il conflitto in modo che il responsabile diventi consapevole e la vittima sia riparata dal male subito. “Siamo abituati – osserva l’ex magistrato – a ritenere che i rapporti siano verticali e che il male si elida attraverso l’applicazione del male”. Il futuro della giustizia riparativa “dipende – prosegue – dall’impegno che le persone ci mettono e prima ancora dalla pratica perché non è semplice e coinvolge le emozioni. Affinché abbia un futuro, è necessario che la giustizia sia praticata. Quello che fa Caritas è essenziale e lo fa con la dovuta attenzione. Sarebbe importante che Caritas promuovesse la giustizia riparativa attraverso iniziative come questa, infatti, quanto più si diffonde la giustizia riparativa tanto più ci sarà possibilità di ascoltarsi reciprocamente”.
Chi ricorda infine l’impegno di Caritas è il suo direttore, don Marco Pagniello: “Abbiamo un’opportunità perché intorno al povero, che non è solo il povero economico, ma è anche la persona che non ha relazioni, può nascere una comunità. Ricomporre legami – prosegue – è un tema che fa parte della nostra storia, la quale affonda le sue radici nel Vangelo e per la quale non dobbiamo temere di dire chi siamo. Questo non significa che non mettiamo da parte altre realtà, ma l’identità è chiara”. “Se la giustizia riparativa è un paradigma – spiega – lo dobbiamo diffondere in tutte le azioni che la Caritas porta avanti. Ci sono altri paradigmi che seguono gli stessi obiettivi e usano gli stessi strumenti, ma questo paradigma deve lasciarsi contaminare negli altri ambiti di servizio”. “Usciamo fuori – l’invito – dal nostro ambito Caritas rimanendo nella Chiesa. La nostra identità, la famosa via da percorrere, il ‘non fare da soli ma insieme’, parte per prima cosa da casa nostra e poi cerca di allargarsi. I fatti possono a volte parlare più di tante chiacchiere perciò siamo chiamati a fare opere di segno che annunciano e aprono nuove vie”.