Si è concluso il 15 maggio a Verona il XXV Convegno nazionale di pastorale della salute sul tema “Non ho nessuno che mi immerga. Universalità e diritto di accesso alle cure” (7-15 maggio). Al centro dei lavori un focus sulle povertà sanitarie e la firma di un Manifesto da parte dei presidenti delle Federazioni degli ordini nazionali delle professioni sanitarie – 11 Federazioni, per un totale di 1,5 milioni di curanti – condiviso dall’Ufficio nazionale per la pastorale della salute Cei, per contrastare queste povertà e le disuguaglianze di accesso alle cure. All’indomani dell’evento il bilancio a caldo con don Massimo Angelelli, direttore del suddetto Ufficio, e le prospettive per il futuro, anche in vista del Giubileo 2025.
Un elemento molto interessante è stata l’alleanza tra pastorale della salute e Federazioni degli ordini professionali, che ha portato alla sottoscrizione di un manifesto per un Ssn più equo, solidale, sostenibile e universale. Quali i prossimi sviluppi?
Siamo grati alle Federazioni per avere accettato l’invito della Cei a fare un focus sulle povertà sanitarie, tema di scottante attualità. Una bella esperienza di collaborazione e condivisione, che tuttavia è solo la prima tappa del percorso di avvicinamento al Giubileo 2025 che faremo insieme agli Ordini delle professioni sanitarie. Il prossimo appuntamento, il 15 novembre a Roma, avrà uno sguardo sui sistemi sanitari europei e vedrà un confronto con tre Paesi: Germania Francia e Spagna; infine il grande evento del Giubileo dei malati e del mondo della sanità (5-6 aprile 2025), dedicato ad un focus mondiale e all’approccio One Health per una salute globale.
A Verona la dottoressa Chris Brown, Head Who European Office for Investment for Health and Development, ha osservato che il nostro non è l’unico Paese a misurarsi con il tema della povertà sanitaria..
L’Italia ha ancora un ottimo servizio sanitario nazionale che può rispondere a molte esigenze; quello che dobbiamo combattere è però la tendenza a diventare un sistema per pochi.
La sfida è come mantenere universalistico il Ssn.
I 4,5 milioni di persone che rinunciano alle cure e gli oltre 40 miliardi di out of pocket sono un dato allarmante. Come vede il futuro del Ssn?
Siamo ad un punto di svolta. Nato con la legge 883 del 1978, in un contesto storico e sociale molto diverso da quello di oggi, il Servizio sanitario nazionale ha concluso i suoi primi 45 anni di vita, dopo il cambiamento epocale legato al Covid. La sfida è il suo aggiornamento mantenendone, come ho detto prima, la vocazione universalistica. Il problema però non è solo finanziario: ci sono i fondi del Pnrr e l’incremento del finanziamento alla sanità, 136 miliardi, è il più alto degli ultimi anni; ritengo che il nodo sia soprattutto organizzativo e gestionale. Occorre ripensare la rete dei servizi sul territorio, ridisegnare la filiera sanitaria e sociosanitaria. Il sistema centralizzato di hub per acuti non funziona se manca la rete di accompagnamento nei post acuti. Occorre inoltre investire di più sui professionisti e valorizzarli:
il Servizio sanitario nazionale è costituito soprattutto da persone che curano persone.
E’ sotto gli occhi di tutti il sottorganico di medici, infermieri e Oss…
Il tema dei medici sta arrivando a maturazione, probabilmente a partire dal 2027 ne avremo un numero sufficiente. Rimane invece cronica la carenza di infermieri, figure a contatto diretto con la cura, ed è il momento di ripensare anche la figura dell’operatore sociosanitario. Vi sono diversi progetti fermi in Parlamento; è tempo di potenziare questa figura: il cosiddetto “operatore sociosanitario specializzato” potrebbe giocare un ruolo strategico nel sistema di cura.
Oggi il paradigma di cura sembra più incentrato sull’erogazione di prestazioni che sulla persona.
L’attuale paradigma tecnocratico, legato alla convinzione (e all’illusione) che strumenti e tecnologia – compresa l’intelligenza artificiale – possano risolvere quello che non riesce a risolvere l’uomo, sta mostrando i suoi limiti, come anche il paradigma inteso come sistema di erogazione di servizi e non come relazione di cura.
Questo è il punto: la relazione di cura, la profonda differenza tra curare, essere curati, e “sentirsi” curati, cioè ascoltati e sostenuti.
E non è un optional. Il Ssn va ricollocato all’interno di questa prospettiva di maggiore prossimità con i sofferenti, altrimenti non ne usciamo.
Ieri mons. Redaelli, presidente della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute, ha espresso l’auspicio che quanto sarà vissuto più intensamente durante il Giubileo divenga la normalità dell’azione pastorale della Chiesa, e vi ha esortato a dare vita ad una sorta di pastorale della salute della porta accanto. Come vi sentite interpellati?
Mons. Redaelli ci ha incoraggiati a proseguire un cammino già da noi intrapreso con il potenziamento del ruolo dei ministri straordinari della Comunione come ministri di comunione tra comunità cristiana e case dei malati. Il suo pensiero ci sprona ad andare avanti sulla strada di una pastorale sempre più integrata con il territorio, e questo interpella anche i nostri confratelli parroci per disegnare insieme un’azione pastorale di prossimità, come ci ha sempre chiesto Papa Francesco: uscire dai nostri luoghi e andare là dove c’è bisogno di annuncio del Vangelo e di testimonianza di cura.
Autonomia differenziata: secondo molti osservatori non farà che ampliare le disuguaglianze tra Nord e Sud portando al collasso la sanità di queste ultime regioni, mentre al Nord si profilerà un rischio sovraccarico da mobilità sanitaria.
Un rischio reale perché al Centro e al Sud manca una sanità di base in grado di garantire una qualità minima di servizi. Se non riusciremo a potenziarli aumenterà certamente la mobilità verso il Nord con enormi costi aggiuntivi per le famiglie anche in termini di trasporti, alloggi, assistenza. E’ urgente supplire alle carenze del Centro-Sud e per questo
non c’è bisogno dell’autonomia differenziata, ma occorre applicare i criteri dei Lea che non vengono garantiti;
tutta una serie di servizi vanno verificati e potenziati, altrimenti non partiranno mai.
La sfida non è raggiungere performance eccezionali, ma parametrare il tutto affinché nessuno resti indietro.
Che messaggio di speranza lascia il convegno di Verona?
La nostra preoccupazione è che nessuno rimanga solo ad affrontare l’esperienza della sofferenza e della malattia. Dobbiamo costruire una grande rete di solidarietà di comunità cristiane che si mobilitino sul territorio per farsi prossime ai sofferenti. Sappiamo che la cosa peggiore è affrontare la malattia in solitudine, ma se c’è una rete di supporto e fraternità, anche per le cose semplici, tutto diventa più accettabile.
“Con i sofferenti, pellegrini di speranza” è il tema del vostro 26° Convegno nazionale, in programma a Roma dal 12 al 14 maggio 2025.
Un tema che è la nostra mission, quella che tentiamo di realizzare ogni giorno su tutto il territorio grazie alla rete di sostegno delle pastorali della salute diocesane.