L’irruzione dell’Altissimo nella storia dell’umanità – pur sempre Sua creazione ma l’umanità l’aveva ben scordato – suscitò stupore e meraviglia. Irrompendo consegnò il Suo Nome, la Sua identità, Se Stesso: El Rahum. Il Dio che ha gli uteri, Colui che genera.
Ci custodisce nel Suo utero e ci genera con il nostro volto nella storia, consegnandoci una missione particolare: ognuno e ognuna la sua, quella propria.
Sgomento e gioia: ciascuno e ciascuna è unico, è unica, è prezioso, è preziosa, nella storia di noi pellegrini verso la Casa del Padre, El Rahum.
Viviamo e respiriamo nella maternalità, lo si sappia e lo si assapori oppure lo si ignori.
Ad una donna, ad una ragazza, proprio come una noi, fatta respiro e fatta persona, l’Altissimo, quando la interpellò, donò la missione di diventare la Madre del Figlio, del Messia, di Colui che avrebbe portato la salvezza della conversione a Israele e a tutta l’umanità.
In questo grembo di Mirjam di Nazareth, noi nasciamo, non una volta per tutte e poi siamo lanciati e magari abbandonati ad un cieco destino che ci travolge, nasciamo ogni momento e in ogni circostanza ed evento del nostro esistere: siamo e respiriamo nella Madre di Gesù e Madre nostra.
Tutto il divenire della storia di ciascuno e di ciascuna, nel vortice della storia dei popoli che attraversa e solca i secoli, porta inciso questo sigillo e chiede a chi lo intuisce e lo fa proprio, di diventare, a sua volta, portatore del mistero della maternalità.
La maternità ci porta a pensare a nostra madre, a quella donna che abbiamo appreso a chiamare mamma, che ci ha donato alla vita.
La maternalità è quella dimensione che ci induce e ci insegna a fecondare nel tempo e nella storia, El Rahum, il Dio degli uteri, e a guardare a quella creatura, donna creata, come noi, che portò in grembo un vertiginoso progetto divino.
P. Sartre, da non inserire nelle fila dei credenti ma pensante in profondità, ci ha consegnato in una pagina vibrante la realtà del Volto della Madre:
Ciò che bisognerebbe dipingere sul viso di Maria è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne e il frutto del suo ventre. L’ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E in certi momenti, la tentazione è così forte che dimentica che è Dio, lo stringe tra le sue braccia e dice: piccolo mio! Ma in altri momenti rimane interdetta e pensa: Dio è là! E si sente presa da un orrore religioso per questo Dio muto, per questo bambino che mette paura.
Fatte le debite proporzioni, è in gioco Dio stesso e la persona umana, nostra madre così ci ha guardati e così ci ha custoditi nella nostra crescita.
Come Mirjam ed insieme a Mirjam che accompagna e vibra in ogni madre, la nostra propria madre, così siamo stati guardati:
È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo, che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive. Ed è in quei momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l’espressione di tenera audacia e di timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride.
La festa della nostra mamma qui si radica e trova la sua gioia.