Un mio giovane parrocchiano a seguito del precedente articolo sulla preghiera in parrocchia mi ha mandato il seguente messaggio: “Ciao don. Grazie del bell’articolo. Devo dirti che a livello personale anche i momenti di preghiera in comune, con la comunità (penso ai venerdì di Quaresima dove pregavamo gli uni per gli altri), mi hanno fatto affezionare alla parrocchia come luogo privilegiato di preghiera anche personale. Penso perché nello stare da ‘solo’ con Dio insieme ad altri che a loro volta stanno ‘soli’ con Dio imparo di più a starci, e vedo altri che sanno starci più di me e non ho paura a starci”.
Vorrei partire proprio dalle considerazioni di questo ragazzo per affrontare quello che forse è l’aspetto più decisivo della risposta al quesito che ci ha accompagnato in queste settimane, e cioè se sia possibile o meno pregare in parrocchia: si può pregare in parrocchia, se in parrocchia si insegna a pregare.
La volta scorsa abbiamo visto che è compito anzitutto del parroco e dei suoi collaboratori più stretti (sacerdoti e laici) fare della parrocchia un contesto dove sia possibile pregare, ma questo non basta: se infatti creare un contesto adatto può aiutare chi già prega, la parrocchia, come espressione concreta della Chiesa che evangelizza un territorio, deve prima insegnare alle persone a pregare e, ancora prima, deve insegnare la bellezza e la necessità della preghiera.
Due settimane fa scrissi che in parrocchia si fanno tante cose e si cercano tante cose, peraltro non sempre “di Chiesa”. Oggi vorrei aggiungere che in parrocchia si insegnano tante cose, una congerie di contenuti raramente uniti in una visione organica del reale che spaziano dal catechismo ai corsi di cucina, ma raramente si insegna a pregare – cosa diversa, ma questo è ovvio, dall’insegnare le preghierine ai bambini… il che neppure si fa quasi più, tra l’altro.
I motivi per cui raramente la parrocchia è vista/vissuta come una scuola di preghiera sono molteplici, e uno peggiore dell’altro: la poca fiducia, da parte dei sacerdoti, nel loro “munus docendi”, cioè della potestà/missione di insegnare, così che sembra doveroso dire tre Messe in un giorno se serve, ma non altrettanto lo sembra formare i fedeli o predicare decentemente; l’idea, di matrice protestante, che la preghiera sia qualcosa di soggettivo e spontaneo, non codificabile; l’assunto aprioristico che si sappia pregare per il semplice fatto che ci si dice credenti; ecc. ecc.
Ma la preghiera è come l’arte, anzi è un’arte, la più eccelsa: tutte le sue espressioni più spontanee richiedono a monte, come in ogni arte, formazione, consapevolezza e il giusto approccio – e dei validi insegnanti.
Se è vero che recenti indagini statistiche sembrano indicare un drastico declino della fede e della religiosità nelle nuove generazioni, c’è da chiedersi se questi dati non indichino piuttosto che la gente non sappia più che farsene di una religiosità preconfezionata e veicolata abitualmente attraverso canali ormai obsoleti. Forse non sta finendo la fede, ma sta finendo la scontatezza della fede. Ne sono prova situazioni come quella cui accennava il mio giovane parrocchiano citato all’inizio: nei venerdì di Quaresima estendiamo ulteriormente il tempo di deserto che proponiamo in parrocchia durante tutto l’anno e, dopo i Vespri comunitari, si salta la cena e si leggono i testi dei padri del deserto, poi ci si sofferma a meditare in silenzio, e si può accedere alle confessioni, per concludere poi con la Compieta verso le 22.00 – e la chiesa è gremita di giovani. Come mai? Perché la priorità assoluta che ho voluto dare come parroco è quella della formazione, per fare della parrocchia una comunità di fede, che fa un’esperienza di fede, e che può testimoniarla.
Di contro a statistiche inevitabilmente generiche perché generali, le persone hanno sete di sapere le cose di Dio, e ben volentieri accolgono quelle proposte che, tenendo conto delle difficoltà che si possono presentare per lavoro, famiglia e altri impegni, le aiutino a entrare consapevolmente nella sfera dello Spirito.
A tal proposito, vorrei suggerire alcune proposte che potrebbero aiutare a imparare la preghiera in parrocchia.
Valorizzare l’anno liturgico
Non si tratta semplicemente di cambiare le piante sotto l’altare o di far fare i lavoretti ai bambini del catechismo, ma di fare proposte liturgiche e formative sintonizzate sui tempi, valorizzandone i temi di fondo: quello penitenziale di Avvento e Quaresima, l’invito a una maggiore assiduità alla liturgia nel tempo di Pasqua, ecc. Va detto che i singoli eventi servono a molto poco: non ha senso una penitenziale in Quaresima, se in parrocchia non ci sono mai stati percorsi di formazioni alla revisione di vita, o se trovare un confessore disponibile è un terno a lotto; riscuoterebbe ben poco successo la proposta delle “quarantore” nel tempo di Pasqua, se nessuno ha mai promosso l’adorazione eucaristica nella quotidianità.
I tempi forti dovrebbero essere l’occasione per avviare percorsi, più che per indire eventi; percorsi che poi continuino nella ferialità, divenendo tratti caratteristici della spiritualità di quella specifica comunità.
E qui passiamo al secondo punto.
Percorsi, percorsi, percorsi
In relazione alla crescente indifferenza della gente alla dimensione liturgica della fede, ho scritto altrove che non servono eventi, ma percorsi, perché il Cristianesimo è un percorso, la Via, e l’uomo vivente è uno che cammina verso la patria. Se la preghiera è un’arte che si può e si deve imparare, è pur vero che questo richiede un processo graduale come la vita, scandito in fasi gestibili e digeribili dalle varie sensibilità culturali. Percorsi che, sull’impronta del cammino dell’iniziazione cristiana, incontrino le persone nelle loro situazioni concrete e, partendo da queste, le accompagnino, in un crescendo, a vedersi con gli occhi di Dio. In questo modo la preghiera, personale e liturgica, diventa interessante, perché coinvolge l’esistenza concreta della persona.
Un modo semplice di avviare un percorso spirituale in parrocchia potrebbe essere il prendere i brani dell’anno liturgico, che è il grande vero percorso della Chiesa, e, di settimana in settimana, avvicinare le persone alla lectio. In base al gruppo di riferimento (mai pensare che la stessa proposta possa valere per un adolescente, un ventenne o un pensionato!), si dovranno trovare proposte serie, esigenti e di valore.
La direzione spirituale
Un percorso spirituale è sempre un percorso relazionale, ecclesiale: ecco il senso della direzione spirituale. Insegnare la preghiera è possibile se si insegna alle persone ad ascoltare le mozioni interiori prodotte da Dio o dalla tentazione: in questo modo la preghiera diventa un vero dialogo con Dio, e non una mera formalità. È quindi necessario che ci siano in parrocchia sacerdoti a disposizione come confessori e come direttori spirituali, in modo non occasionale, ma fisso. Sacerdoti che vedano in questo servizio qualcosa di prioritario rispetto a tanto altro che, francamente, serve sempre di meno. In questo modo le persone troveranno qualcuno con cui condividere il frutto della preghiera fatta, e riceveranno spunti e consigli per la preghiera da fare, in un accompagnamento costante del loro percorso spirituale.
Queste poche note non hanno la pretesa di essere una ricetta risolutiva, quanto piuttosto delle ipotesi da percorrere, sulla base di esperienze feconde fatte da chi scrive.