Sempre più anziani a partecipare alla messa, con le donne che tendono ad allontanarsi dalla chiesa e un calo del riavvicinamento alla pratica religiosa dopo l’età adulta. È un quadro preoccupante quello che esce da “La Messa è sbiadita. La partecipazione ai riti religiosi in Italia dal 1993 al 2019” (Rubbettino) a firma di Luca Diotallevi, docente di sociologia all’Università di Roma Tre.
Il calo delle persone che partecipano alla messa è drastico: dal 1993 al 2019, almeno un terzo di praticanti è sparito. Cosa sta succedendo?
I processi religiosi, a differenza di quelli finanziari, hanno una forte inerzia: se cresce l’inflazione ce ne accorgiamo il giorno dopo, se cala la partecipazione alla messa occorrono decine di anni per osservare gli effetti. Il punto di rottura sono gli anni Sessanta, ma il calo lo abbiamo iniziato a vedere quando le generazioni di allora e quelle successive hanno iniziato a prendere la scena. Non è un caso, poi, che all’inizio degli anni Ottanta inizi a crescere anche l’età media del primo figlio e dell’ordinazione presbiterale. Tutti elementi che certificano il classico esempio di ritardo del passaggio all’età adulta da parte di coloro che hanno “fatto” il Sessantotto.
Con quali conseguenze?
La secolarizzazione, ovvero la crescente inadeguatezza e mancanza di partecipazione rispetto alla formazione religiosa e a quella dei riti. Negli anni Sessanta venivamo dal Concilio Vaticano Secondo e dal pontificato di Paolo VI, entrambi avevano perfettamente compreso il fenomeno Sessantotto.
La modernità è un momento provvidenziale che richiede però una fede più profonda. Non audience, ma fede vera, che non si recupera con interventi improvvisati.
L’errore è stato ritenere che fosse possibile recuperare la pratica religiosa non attraverso l’approfondimento e un puntuale lavoro sulle coscienze, ma puntando su un approccio sicuramente attraente ma forse superficiale. La fede non ha bisogno di essere spettacolarizzata ma seguita, alimentata. Le Giornate mondiali della gioventù ad esempio, ci dicono di milioni di giovani infervorati da Cristo, presenti a un evento importante. Se guardiamo alla partecipazione alla messa, dove sono finiti i due milioni di ragazzi presenti a Tor Vergata per il Giubileo del 2000? Una cosa è assistere a un concerto per ascoltare il nostro cantante preferito, altra cosa è imparare a suonare. E per imparare a suonare non devi andare solo al concerto, ma al conservatorio. Dove si studia con fatica dieci anni e non basta pagare il biglietto.
Dalla metà dei primi anni Duemila si assiste a una ulteriore accelerazione dell’allontanamento dalla messa…
I fenomeni di interazione, che richiedono la presenza fisica delle persone, si riducono. Cerchiamo di capirci, non è che la gente non va più a messa perché frequenta la sezione del partito o altri luoghi di aggregazione: non va a messa perché resta a casa. Questa erosione della componente corporea ha avuto un’immediata ripercussione sulla celebrazione eucaristica. Non basta spettacolarizzare la liturgia o proporre celebrazioni televisive con milioni di persone. Al di là degli impedimenti personali, c’è chi ormai segue la messa in casa mentre fa altre cose oppure la vede registrata appena ha un attimo di tempo.
Insomma la messa non è più un rito sacro, che necessita un adeguato approccio prima e durante il suo svolgimento, ma un appuntamento come tanti altri. Il rischio è trasformare il sacramento in immagine.
È definitivamente in crisi la pratica religiosa confessionale?
È certamente in crisi la forma religiosa dominante nell’Europa continentale dal XVI al XX secolo. Alcuni si rifugiano nel neo-confessionalismo, cercando uno spazio dietro all’uomo forte di turno, che sia di destra o di sinistra. Poi c’è chi si affida alla commercializzazione, alla commodification of religion, ma la Chiesa su quel terreno è in difficoltà, perché si porta dietro venti secoli di tradizione. Infine c’è l’intuizione di Paolo VI che nella Evangelii Nuntiandi parlava già allora della complessità dell’azione evangelizzatrice. E in più tracciava la strada da seguire. A volte mi sembra, invece, che il generoso impegno profuso oggi dalla Chiesa vada in altre direzioni col rischio di disperdersi. Non stiamo buttando via una cosa andata a male, ma una ricchezza inestimabile.
La diminuzione della pratica religiosa ha conseguenze anche a livello sociale?
Negli anni Settanta andare o non andare a messa faceva la differenza in tante cose, dalla partecipazione politica alla cultura. Tutte queste correlazioni oggi sono venute meno. Il cristianesimo sta diventando un fenomeno ad altissima compatibilità, va bene con tutto e non è contraddistinto da niente.
Dunque è un’Italia che perde l’identità?
Se alla società italiana togli il contributo del cattolicesimo, il cambiamento è davvero epocale. L’acqua che esce dal rubinetto dei cattolici ha irrigato e continua ad irrigare il Paese. Si sta impoverendo la vita sociale, la partecipazione alla messa non ha più relazione neanche con le reti amicali.
Nel libro evidenzia che il calo dei laici è di gran lunga superiore alla crisi vocazionale dei sacerdoti…
Il carico di lavoro del prete è calato, i sacerdoti ordinati sono il 62% di quelli ordinati negli anni Novanta ma non c’è paragone con i laici che si recano in chiesa scesi al 23,7%. Dunque, magari bisogna riorganizzare le strutture e ottimizzare le parrocchie in base al numero di abitanti ma i preti ancora ci sono, di meno ma ci sono. Ciò invece cui andiamo incontro è una forte riduzione della platea dei praticanti, soprattutto perché una parte significativa di quelli attuali è costituita da persone anziane.
Le classi dei 40enni e dei 50enni di oggi che partecipano sono molto meno numerose. Nel giro di qualche anno assisteremo non tanto a un progressivo diminuire, ma a un vero e proprio tracollo. È un fatto fisiologico.
Inoltre, non avremo più una comunità prevalentemente femminile. Tra 10 o 15 anni, se la tendenza non cambia, le comunità saranno piccole e meno sbilanciate. Magari si potranno fare cose oggi impossibili.
L’unica relazione che regge è quella con il volontariato: chi va a messa, risulta essere più coinvolto nelle attività solidali…
Il nesso fra partecipazione alla messa e disponibilità alle azioni di carità è l’unica relazione che perdura. Ma spesso è un’azione di carità cieca e fine a se stessa perché, se non si sta dentro un’istituzione, non si percepisce la finalità di certe azioni. Tuttavia si è certamente più disponibili a compiere gesti di solidarietà personale.
Da dove ripartire?
Si può ripartire soltanto dalle parrocchie e dalle associazioni, che vivono nella parrocchia. Più attenzione all’operatore pastorale, il cosiddetto volontario che in parrocchia fa un po’ di tutto. Lì dove è stato adottato, come in Germania ad esempio, è risultato essere il killer dell’apostolato. Diventa l’unico laico di cui ti puoi fidare. Ma un laico che vive in pieno la sua laicità è un laico che di fatto non ha tempo, perché è impegnato nella professione, nella famiglia, nel sociale. Mi domando: se un laico ha tanto tempo, che laico è? Quando lavora, quando sta con il coniuge, quando fa politica, quando sta con gli amici? Se porti il laico dietro l’altare e gli metti la tunica, magari lo fai contento ma rischia di diventare l’impiegato di un ufficio postale di un paesino dove nessuno spedisce più lettere.