“Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,12-13). È la risposta di Gesù ai farisei che non comprendevano il perché sedesse a tavola con “pubblicani e peccatori”. Ciò che stupisce è la presenza di quei commensali, che fa però da legame con l’episodio precedente: la chiamata di Matteo, l’odiato funzionario delle imposte. Nella risposta di Gesù c’è il capovolgimento di prospettiva: “Misericordia io voglio e non sacrifici” (cfr Osea 6,6) significa che il Signore è interessato all’amore, a ciò che nasce dal cuore e non da gesti esteriori vuoti.
Cosa significa per noi oggi? E perché la scelta di dare come titolo a questo Sussidio proprio quelle parole? Di certo, non c’è alcuna contrapposizione tra sacrificio e amore ma una connessione altamente spirituale di una vita che si incarna nella storia e nell’umanità, con le sue gioie e con i suoi dolori. In questo senso si coglie anche il passaggio della frase da Osea a Cristo: nel primo si riferisce all’uomo, nel secondo a Dio. Il profeta Ezechiele aiuta nella comprensione: “Io non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva” (Ez 33,11). L’amore è sempre un dono e il sacrificio segna l’apertura ad accoglierlo con tutto ciò che questo comporta. L’efficacia di questo processo si misura in tutte le situazioni che noi consideriamo di periferia o marginali. Sono quell’interrogativo che può sostenere la nostra comprensione, perché non c’è luogo in cui l’amore non si possa incarnare. Anche dentro le mura di un carcere. Ce lo ricorda continuamente Papa Francesco: “Nessuno […] punti il dito contro qualcuno. Tutti invece rendiamoci strumenti di misericordia, con atteggiamenti di condivisione e di rispetto” (Udienza, 9 novembre 2016).
Siamo chiamati a mostrare il volto della Chiesa-madre ai fratelli detenuti, sensibilizzando al contempo le comunità cristiane e la società civile verso le carceri, spazi spesso dimenticati ed emarginati.
Questo Sussidio vuole essere un segno di attenzione delle Chiese in Italia per quanti sono stati privati della loro libertà personale e di incoraggiamento per coloro che operano nelle carceri. È un modo per “visitare”, per oltrepassare le porte chiuse e le sbarre, per farci prossimi. Del resto, entrare in queste periferie umane è per i credenti un atto di fede: Gesù si identifica, continua a identificarsi, con queste persone che chiedono di essere visitate. Ecco allora che queste pagine diventano il segno di una nuova fraternità, della certezza che si può ricominciare nella vita personale e sociale anche quando sembra albergare il disagio o la disperazione. Perché, come rimarca il Papa, “il Signore non rimane fuori, non rimane fuori dalla loro cella, non rimane fuori dalle carceri, ma è dentro, è lì. […] Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna; Lui è lì, piange con loro, lavora con loro, spera con loro; il suo amore paterno e materno arriva dappertutto” (Discorso ai partecipanti al convegno nazionale dei cappellani delle carceri italiane, 23 ottobre 2013).
Con il desiderio di raggiungere tutti, vogliamo pensare questo Sussidio come una mano tesa, un abbraccio, una parola di conforto, come un’azione concreta affinché questi fratelli non siano solo destinatari di una buona azione ma protagonisti del proprio riscatto e del proprio futuro.
* Arcivescovo di Cagliari e Segretario generale della Cei