La comunità che lo ha amato come parroco e quella che lo ha accolto, unite nel ricordo di don Andrea Santoro ucciso a Trabzon (Trebisonda), in Turchia, mentre era intento a pregare, il 5 febbraio 2006. Nella chiesa dei Santi Fabiano e Venanzio, nel quartiere Appio Tuscolano della Capitale, è stata celebrata ieri la messa per commemorare il sacerdote, nato nel 1945 a Priverno, in provincia di Latina, terzo e ultimo figlio di una casalinga e un muratore trapiantati a Roma nel secondo dopoguerra. A concelebrare la funzione vi era una rappresentanza dai vescovi della Conferenza episcopale turca e il suo presidente, mons. Martin Kmetec, arcivescovo di Smirne. “Rappresentiamo la Chiesa della Turchia per la quale don Andrea ha dato la sua vita”, ha detto l’arcivescovo all’inizio della messa, in occasione del diciottesimo anniversario della morte di don Andrea.
Il sacerdote fu ucciso da un giovane nella chiesetta di Santa Maria mentre era intento a pregare con in mano una Bibbia. Don Andrea aveva scelto di recarsi in Turchia e divenire parroco di una comunità ristretta, costituita da pochissimi cristiani, dopo un lungo periodo, dal 1994 al 2000, in cui aveva guidato la parrocchia dei Santi Fabiano e Venanzio. Qui, il 3 dicembre 2022, sono state traslate le sue spoglie, nella tomba in travertino bianco e rosso posta sotto al Crocifisso, davanti al quale don Andrea era solito fermarsi in preghiera.
Gli ultimi anni vissuti in Turchia non sono stati semplici per don Andrea. Il Paese, così come altri del Maghreb, era funestato dalla lunga scia di odio generata dall’attentato dell’11 settembre 2001 a New York e dalle rivolte e guerre che sono seguite. “Don Andrea – ha detto l’arcivescovo – ha continuato a dare la propria disponibilità al confronto, soffocando l’egoismo per rimanere fedele alla chiamata di Dio”.
In nome di don Andrea Santoro è nata, pochi mesi dopo l’uccisione, nel 2006 un’associazione che mantiene vivo il legame fra la diocesi romana e la Chiesa in Turchia. A celebrare la liturgia, ieri sera, vi era anche mons. Paolo Bizzeti, vicario apostolico dell’Anatolia. “Gesù – ha detto durante l’omelia su un brano del Vangelo di Marco – va a trovare la gente nelle piazze. Le persone intuiscono, mosse dai loro bisogni, che devono stabilire un contatto concreto e fisico e cercano di toccarlo. In un’epoca come la nostra, in cui le nostre relazioni sono mediate da un telefono o un computer, questo testo ci ricorda che c’è bisogno di fisicità”.
“Alla fine – ha aggiunto mons. Bizzeti – per le relazioni umane, niente può sostituire un abbraccio o una mano sulla spalla. Anche con il Signore è la stessa cosa.
Dobbiamo coinvolgere la nostra fisicità. Non è una fede basata sull’astratto. Il Signore si lascia toccare.
L’odore delle pecore – come dice Francesco – ce l’hai se stai attaccato alle pecore”. “Le nostre relazioni passano attraverso degli incontri. Anche con il Signore, dobbiamo trovare la modalità per esprimere la nostra fede e il desiderio di relazione. Ricevendo l’ostia tocchiamo Gesù”. E ancora: “Come ci lasciamo toccare da Gesù? Lasciamo che la sua mano tocchi le nostre ferite? La Chiesa e le liturgie – ha risposto, infine -, servono ad educarci per avere questo rapporto stretto con il Signore. Allora, sperimenteremo anche la vicinanza profonda”.