“Dai rettori dei seminari, dai formatori e dal Cammino sinodale è emersa l’esigenza di avvicinare i seminaristi alla realtà. D’altra parte, la Chiesa deve avvertire l’esigenza di generare i propri pastori. E se questo non avviene, significa che c’è qualcosa che non va nella Chiesa. Senza vocazione, la Chiesa non è”. In attesa della conferma della “Ratio Fundamentalis sacerdotalis” per i Seminari in Italia da parte del Dicastero per il Clero, don Michele Gianola, sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della vocazioni della Cei, riflette sul percorso di formazione dei nuovi sacerdoti.
Perché rinnovare la Ratio?
La Chiesa si occupa di formare i suoi pastori. La Ratio considera tutto l’arco della formazione, dalla pastorale vocazionale all’ingresso in seminario, alla formazione permanente.
Il seminario non prepara preti già fatti e finiti.
È l’opposto di quel che succede acquistando un’automobile: quando si esce dal concessionario, la macchina è nuova e nel tempo andrà riparata. In seminario avviene il contrario.
Che qualità servono per diventare preti?
Nel rito dell’ordinazione, il vescovo chiede al rettore del seminario: “Sei certo che ne sia degno?”. Ma come puoi dire che una persona è degna del ministero che riceve? Lo possiamo comprendere se guardiamo all’etimologia: la radice della parola “degno” significa “avere la stoffa”. E allora tutto acquista significato. Il seminario è un momento di discernimento per verificare che un candidato abbia la stoffa da prete. Poi c’è tutta la vita per diventare pastore con il cuore di Cristo.
Chi sono i giovani che entrano in seminario?
Sono più fragili e feriti del passato, ma questo non significa essere migliori o peggiori. Chi bussa al seminario ha una storia alle spalle con tante ferite. Dal punto di vista vocazionale c’è bisogno di un argine, non per contenere ma per convogliare l’energia che hanno dentro.
Il rischio è che si disperdano in troppe cose, affondando in una palude. Un argine, invece, permette alla vocazione di maturare. I giovani hanno tanta energia: trent’anni fa si entrava in seminario con percorsi ordinari, adesso non si accontentano di una fede superficiale ma hanno sete di trovare la radice del Vangelo.
È il tratto bello di questa generazione. Lo abbiamo sperimentato a Lisbona: durante l’adorazione eucaristica, il silenzio era assoluto. Un milione e mezzo di giovani che pregavano.
Trovare la radice è un impegno serio…
Alcuni sono disorientati, ma hanno sete di cose importanti. I numeri non sono incoraggianti, è vero, ma questo è un tempo speciale per l’annuncio vocazionale. Che non significa diventare preti, ma comprendere a cosa siamo chiamati. Scoprire cosa c’è di buono nella vita. Quanti giovani vanno a seguire Sadhguru? È l’elefante nella stanza che per noi deve essere una sveglia. I giovani desiderano la spiritualità.
C’è ancora spazio per il seminario minore?
I vescovi hanno voluto mantenere, con forme differenti, l’accompagnamento vocazionale degli adolescenti.
Rispetto alla Ratio del 2006 il seminario minore ha perso forza come forma tradizionale, ma ne ha acquisita come altra forma di accompagnamento per gli adolescenti.
Prima era il seminario minore e altre forme, ora le comunità vocazionali giovanili e le comunità vocazionali.
La Ratio vuole intercettare l’esigenza dei giovani di vivere in forme comune?
È un tempo in cui c’è voglia di trovare e trovarsi, di fare esperienze di vita fraterna, di vita comune, di casa. L’Istituto Toniolo ha pubblicato un testo, “Oasi di fraternità”, con l’elenco delle esperienze di vita comune fra giovani in Italia. Anche per gli adolescenti è adesso consentita questa possibilità. Chissà che possa diventare uno sguardo di prospettiva sulla vita del seminario maggiore.
La comunità diventa fondamentale nella formazione dei sacerdoti…
Tanti soggetti intervengono nella formazione, che non è più affidata soltanto ai formatori del seminario. È una bella apertura.
La comunità cristiana diventa soggetto di discernimento del futuro prete.
L’invito è a tessere legami con la realtà parrocchiale ed ecclesiale, perché da lì possono venire elementi per il discernimento. A volte c’è il rischio di una cesura tra il prima e il dopo, soprattutto per il clero diocesano. Prendersi cura della formazione dei preti è un’opera di Chiesa.