Luci e ombre. Forse più le prime. Ma il bilancio della riforma liturgica, a 60 anni dal varo della Sacrosantum Concilium (SC) il documento conciliare che la codificò, e a 50 dalla nascita dell’Ufficio liturgico nazionale (Uln), è ricca di spunti di riflessione. Come dice il vescovo di Mantova e presidente della Commissione episcopale per la liturgia, Gianmarco Busca, al termine del convegno organizzato proprio dall’Uln per fare il punto sull’applicazione della riforma in Italia.
Che cosa è emerso?
Diciamo subito, e questo vale non solo per l’Italia ma per tutto il mondo, che la riforma non poteva ritenersi conclusa solo con la pubblicazione di nuovi libri liturgici. Doveva maturare pian piano una capacità celebrativa che andava di pari passo con l’esperienza di fede dei credenti e delle comunità e che chiedeva di essere rinnovata alla luce del primato della Parola e di una nuova profezia della Chiesa rispetto alle sfide storiche. Per fare un bilancio onesto, con luci e ombre, dobbiamo inserirlo nel cammino della Chiesa uscita dal Concilio. Per restringere il campo all’Italia, sicuramente c’è stato un grande lavoro di adattamento della SC alla nostra cultura e ai nostri tempi.
Che cosa ha funzionato e cosa bisogna invece migliorare?
Gli impulsi dati dalla riforma liturgica erano di qualità alta. Ma era richiesta anche un’alta qualità delle nostre comunità cristiane, che invece hanno conosciuto un ridimensionamento non solo numerico, ma anche, oserei dire, di spessore della vita cristiana. Non tutta la produzione liturgica – penso ai canti – è stata di buona qualità. Talvolta è stato spacciato per bello quello che non era corretto per i contenuti o i linguaggi. C’è stata inoltre qualche difficoltà nella trascrizione dei modelli celebrativi concreti delle grandi ispirazioni della riforma. Abilitare al celebrare non è qualcosa che avviene a tavolino o immediatamente. Ci sono stati tentativi poco felici di rendere la liturgia più fruibile, talvolta l’eccesso di verbosità ha rischiato di trasferire i linguaggi della catechesi dentro il rito. Così come una sorta di autoreferenzialità dei celebranti non ha permesso di aprirsi all’incontro con Dio. In sostanza, le premesse buone della riforma restano. Ma siamo più consapevoli che non abbiamo avuto cantieri celebrativi, cioè esperienze paradigmatiche, sempre all’altezza dei modelli.
Fra le luci c’è chi colloca la ritrovata forza della Parola di Dio.
Certamente. La mensa della Parola ha oggi un proprio peso e ben superiore a prima, quando nemmeno si comprendeva nella propria lingua la Parola. Ma c’è il rischio anche qui che l’elemento didascalico, di spiegazione (ad esempio nel momento omiletico) prenda il sopravvento sulla Parola di Dio sacramentale, che è presenza del Cristo che parla. Dunque si è capito che Bibbia e liturgia sono un binomio imprescindibile per l’esperienza cristiana. Il loro rapporto chiede di essere meglio focalizzato nella predicazione, ma non solo.
Fra le ombre invece c’è chi pone l’attutirsi del senso del mistero.
In effetti è una notazione che abbiamo raccolto anche da alcune sintesi del cammino sinodale della Chiesa italiana. La questione di fondo è se le liturgie sono vive, capaci di evangelizzarci, e di aprirci all’incontro con Dio. Indubbiamente ci sono stati degli equivoci intorno alla actuosa partecipatio, alla partecipazione attiva, che spesso è stata banalmente ridotta al far fare a tutti qualcosa, mentre invece nella mens della SC l’idea è che sia una partecipazione intensa coinvolgente. La liturgia implica uno scatto, il passaggio di una soglia, l’ingresso in un mondo altro che è quello dell’umano trasfigurato dal divino. Perciò il silenzio, l’adoperare un linguaggio diverso da quello della strada restano fondamentali.
Nel convegno si è parlato di una liturgia in uscita per una Chiesa in uscita. Che cosa significa?
Significa una liturgia non autoreferenziale che ci proietta in un sacro separato, ma che è capace di ospitare il realismo della dimensione umana anche con il suo risvolto drammatico. Ad esempio, sarebbe una liturgia solo in entrata quella che cura una resa puramente estetica. La liturgia cristiana invece si fa carico anche della non bellezza, dell’esperienza del male, del peccato, dell’incompiutezza. Nel rito entra la vita e la vita deve entrare nel rito in una osmosi continua dei vissuti portati all’altare e deposti davanti a Dio. Penso, ad esempio, ai Salmi, che sono l’anatomia dell’animo umano anche nella sua drammaticità, ma sempre in dialogo con il Signore. Quindi in definitiva una liturgia in uscita è quella che è capace di registrare questi vissuti umani e riesce a renderli in entrata rispetto alla misericordia di Dio, alla redenzione di Cristo, alla sua croce e risurrezione.
Lei accennava prima alla musica. C’è stata una relazione in questi giorni che ricordava il cammino fatto negli ultimi anni, dalla musica beat in poi. Qual è lo stile più adatto oggi per la musica liturgica?
Occorre una musica di qualità con testi e contenuti adeguati. Perché la musica liturgica non è un apparato esteriore o decorativo. È liturgia vera e propria, è preghiera cantata, professione di fede. Fides canora, diceva sant’Ambrogio. In altri termini fede tradotta in canto. Non tutti i linguaggi musicali sono adeguati a esprimere il mistero. Occorre anche un filtro critico. Ma d’altra parte si è consapevoli che, se il popolo canta, questa è la vera solennità. Il linguaggio musicale del canto rappresenta una risorsa notevole per emozionare; dunque, per aprire il contatto con il mistero. E questo deve orientare nella ricerca degli stili. Se si canta in gregoriano, tutti immaginiamo quasi di trovarci in un monastero. Ora, la domanda è quali stili musicali sono veramente capaci di veicolare l’esperienza del mistero cristiano. Quindi occorre preparazione tecnica da parte di chi suona e canta e sensibilità nel comprendere come le espressioni musicali possano indurre all’immersione nel mistero.
(*) Avvenire