Il Sinodo che si è appena concluso ha forse attirato meno interesse popolare di quanto non meritasse od anche ci si aspettasse negli ambienti ecclesiali. Le guerre che impazzano con i loro orrori su tutti gli schermi hanno attutito la voce di quel dialogo di pace che si è svolto per quasi un mese in Vaticano. I due anni di “preparazione” che hanno visto coinvolte, in Italia, diocesi e parrocchie, clero e laicato, avevano diffuso non solo un lessico prima estraneo ai più, ma anche
un fermento, un risveglio, un clima di attesa come se, veramente, dovesse accadere qualcosa che avrebbe cambiato i paradigmi della Chiesa.
Qualcosa di nuovo è, in realtà, accaduto ed è stato trasmesso con un segno: la geometria in cui è stata disposta l’assemblea sinodale in Sala Nervi.
Non più una grande platea rivolta verso una ribalta ad ascoltare le parole di alcuni ma tutti seduti attorno a tavoli rotondi con diritto/dovere di ascolto e di parola. Lo sguardo di ognuno rivolto verso gli altri undici, dato che al tavolo erano seduti in dodici: un sapore eucaristico, memoria di una originaria fractio panis.
Don Tonino Bello, auspicando una chiesa “col grembiule” le suggeriva di sostituire ai “segni del potere” il “potere dei segni”: credo che il Sinodo abbia voluto e sia riuscito a far questo.
E siccome i segni sono dei significanti vale a dire portatori simbolici di
reali significati, a questo segno doveva corrispondere una concreta condivisione della mensa comune della Parola, ispirata dallo Spirito Santo;
non si trattava, infatti, di un dibattito parlamentare ma di un dialogo sacramentale.
Una disposizione eminentemente radicata nella tradizione cristiana, poiché biblica: come quando a Cesarea, in casa di Cornelio, mentre stava annunciando la salvezza del Signore Gesù, Pietro vide lo Spirito scendere su tutta la famiglia di quel centurione incirconciso e dovette riconoscergli il battesimo. Così è accaduto al Sinodo: lo Spirito è sceso su tutti, vescovi e laici, uomini e donne che da Lui hanno ottenuto la legittimità della parola e del voto. La prima volta che anche le donne – votando – hanno dato riscontro della loro fede fatta visione, idea, decisione. Con buona pace di chi, fin a Sinodo iniziato, ha continuato a non riconoscere neppure la legittimità della presenza dei laici, in punta del diritto che regola l’istituto del Sinodo dei vescovi. Dimenticando il diritto fondativo di Pietro che, con uno scatto d’intuito profetico, disse: “chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11,17).
Che i laici – e quindi le donne – abbiano potuto partecipare attivamente ai tavoli sinodali è una grande festa per la Chiesa, più che una conquista.
La festa è la Pasqua: impossibile celebrarla – nella mensa dei tavoli
dei dodici! – senza le donne. Come farlo senza il fratello maggiore.
Ma la Chiesa, nella sua storia, ha dovuto elaborare su un tessuto antropologico e dogmatico la teologia. E sappiamo come le cose siano andate.
Se c’è stato bisogno di dedicare una parte della discussione di quest’ultimo Sinodo al tema delle donne è segno che qualcosa deve ancora
compiersi circa la loro piena dignità ecclesiale.
Nella Relazione finale c’è, infatti, un numero – il 9 – così titolato: “Le donne nella vita e nella missione della Chiesa” le cui preoccupazioni sono quelle
di dover riconoscere alle donne dei carismi e dei ministeri sinora ignorati o negati. Ad esempio quello del diaconato sul quale, tuttavia, padri e madri sinodali hanno proposto un tempo ulteriore di studio i cui “risultati sono rimandati alla prossima Sessione dell’Assemblea”.
È stato, intanto, ribadito quanto già espresso da Papa Francesco nella Evangelii Gaudium, dieci anni fa:
la richiesta di un maggiore riconoscimento e valorizzazione del contributo delle donne, la partecipazione ai processi decisionali e all’assunzione di ruoli di responsabilità nella pastorale e nel ministero (cf.EG 103-104). Una prassi che è già stata avviata in Vaticano dove appaiono delle donne anche in ruoli apicali. Ricordando, poi, l’importanza che, per la comunione della chiesa, ha la
corresponsabilità, l’Assemblea ha proposto qualcosa di prezioso: il bisogno di ampliare l’accesso delle donne ai programmi di formazione e agli studi teologici. Resta, però, da definire molto affinché perché questo si realizzi: in quali “quadri” ecclesiali, ministeriali – esclusi quelli che tendano a clericalizzarle – e professionali, e con quali mezzi – anche economici – le donne
possano fare ciò.
Quanto nella Relazione finale resta in sordina è la realtà concreta in cui queste buone proposte vanno a collocarsi.
La discussione – non solo quella sulle donne – si è svolta, infatti, più su un
piano teorico – la Tradizione, la teologia, l’ecclesiologia, la dogmatica, il diritto canonico – mentre è sembrata sfumata la percezione del contesto storico e culturale in cui vive oggi la Chiesa specialmente in Europa.
Ci si preoccupa molto della tradizione circa il diaconato femminile e troppo poco del bisogno estremo di una diaconia della fede e della fraternità che si traduca nelle realtà umane, culturali, politiche dell’oggi.
Preoccupati del rigore dogmatico dei ministeri si rischia di perdere di vista la ragione degli stessi. Quando il Sinodo si interroga: “come la Chiesa può inserire più donne nei ruoli e nei ministeri esistenti?” Oppure si chiede se: “servono nuovi ministeri a chi spetta il discernimento, a quale livello e con che modalità?”
il rischio è che ci si preoccupi di come i ministeri possano promuovere le donne e non viceversa: di come le donne possano promuovere i ministeri, dar forma ed efficacia ai loro carismi indispensabili per la missione attuale della Chiesa.
Il discernimento non può prescindere dalla libertà e il dovere di capire e rispondere alle tante grida che dalla terra si levano.