Dopo 12 anni la Compagnia di Gesù ha optato per un cambio al vertice della sua rivista più prestigiosa, La Civiltà Cattolica, la cui fondazione risale al 1850. A succedere a padre Antonio Spadaro è l’ex rettore della Pontificia Università Gregoriana, il gesuita padre Nuno Henrique Sancho da Silva Gonçalves, portoghese, classe 1958, ricevuto giovedì 12 ottobre da Papa Francesco. Roma Sette lo ha incontrato pochi giorni dopo l’inizio del suo incarico.
Direttore, quale effetto le fa assumere la guida di una rivista con questa storia?
Ho ricevuto questa missione dai superiori della Compagnia di Gesù, in particolare dal padre generale, con il quale la rivista ha un legame particolare dall’inizio della sua storia. In questa lunga storia della rivista, sì, è vero che i direttori sono sempre stati italiani, perché la rivista era esclusivamente una rivista italiana e ancora oggi la base è l’edizione italiana. Però negli ultimi anni, durante la direzione di padre Antonio Spadaro, ha acquisito questa dimensione internazionale, per cui oggi è pubblicata anche in altre otto lingue. Penso che il fatto che il padre generale abbia nominato un non italiano voglia sottolineare questa scelta internazionale della rivista.
Una nuova dimensione.
Esatto. Quindi mi sento molto onorato per il compito che mi ha affidato, ma so che la radice e la storia della rivista è soprattutto una storia italiana, conosco il legame della rivista dei Gesuiti italiani con la realtà, con la società, con la politica italiana. Il Collegio degli scrittori (come viene chiamata la redazione di Civiltà Cattolica, ndr) è qui a Roma, però c’è ormai anche una rete di collaboratori che fa sì che la rivista sia internazionale non solo per i destinatari ma anche per chi la scrive, e questo aiuta ad avere uno sguardo globale.
La comunità globale oggi è in grandissima difficoltà, pensiamo alla guerra in Ucraina o al conflitto in Israele: da neo-direttore di una rivista internazionale che cosa pensa della situazione attuale?
Ovviamente oggi viviamo in una situazione internazionale critica, ripensavo a questa frase che Papa Francesco usa tante volte, parlando di una «terza guerra mondiale a pezzi», quasi sembra che questi pezzi siano sempre più vicini gli uni agli altri.
Si stanno saldando.
Sì, questo avviene sempre di più, quindi è un momento drammatico in cui la parola della Santa Sede, del Papa, di un appello alla pace diventa sempre più attuale, sempre più urgente con il messaggio che la violenza e la guerra non sono mai la soluzione. La giustizia si deve cercare, trovare, costruire con la diplomazia, con la pazienza, cercando di capire le ragioni degli altri.
Nel suo editoriale di saluto ai lettori, lei ha indicato come bussola della sua direzione la periferia e la povertà come luoghi da esplorare, da raccontare, anche da curare naturalmente.
Per noi è importante questa attenzione alle periferie, l’attenzione alla povertà, perché questa è anche la scelta della Chiesa ed è la scelta della Compagnia di Gesù. Però c’è anche la questione di essere ponte tra le culture contemporanee e la Chiesa, anche questo mi sta molto a cuore. Noi vogliamo portare la Chiesa verso il mondo così diverso nelle sue culture così molteplici, ma vogliamo anche portare queste culture molteplici verso la Chiesa.
Dove è più facile e dove è più difficile, dal suo punto di vista, questo impegno?
Penso per esempio al mondo dell’economia che vive con altri criteri rispetto alla Chiesa, quindi l’impegno è cercare di fare da ponte tra il mondo dell’economia e delle imprese, dove il lucro è la parola d’ordine, e cercare di avvicinare questo mondo con quello della dottrina sociale della Chiesa che mette al centro la giustizia, l’equità, quella che oggi viene definito come l’Economia di Francesco.
Cos’altro?
Un altro mondo in cui c’è un grande divorzio è il mondo delle arti, della letteratura, del cinema, ai quali la rivista ha sempre dato una grande importanza. Gli ultimi Papi hanno sempre parlato del divorzio tra gli artisti e la Chiesa, quindi nel nostro piccolo vogliamo lavorare per la riconciliazione.
In questi giorni è in corso il Sinodo in Vaticano: anche lì c’è un tema di traduzione fra la sensibilità contemporanea e il modo con cui la Chiesa fino adesso si è pensata?
Ovviamente il Sinodo e tutti gli interventi del Papa vanno nella direzione di attuare il Concilio Vaticano II. Il Concilio ci parla del popolo di Dio che cammina nella storia, ci parla della costituzione della Chiesa come una comunione gerarchica, però sono aspetti ancora da attuare e da approfondire. È questo che mi aspetto dal Sinodo, che la Chiesa approfondisca questa sua consapevolezza di essere un popolo che cammina nella storia, che ha una missione in questo mondo in cui c’è una uguaglianza fondamentale tra tutti i battezzati e poi nella distinzione dei ruoli. Però il ruolo e la distinzione dei ruoli è sempre in funzione della vita, della crescita del popolo di Dio. Quindi non è più la visione di una Chiesa piramidale, ma è una visione in cui anche chi ha un ruolo, come i ministri ordinati, è in funzione della santificazione dei battezzati. Cioè di un sacerdozio ordinato in funzione del sacerdozio comune dei fedeli. Questo ce l’ha detto il Concilio Vaticano II, e va approfondito, va vissuto soprattutto. E quindi in una Chiesa dove ci sia una più grande partecipazione di tutti, un più grande ascolto di tutti, dove si cammini insieme e dove la responsabilità non sia semplicemente delegata a dei pochi che decidono ma dove ci sia un processo di discernimento in cui tutti possono partecipare, ovviamente poi rispettando i carismi di chi ha l’autorità.
Il Papa invita a cercare non tanto quello che ci divide ma quello che ci unisce. Ecco, non è forse questa la vera sfida che il mondo contemporaneo pone alla Chiesa? Il mondo contemporaneo è fatto di polarizzazioni, la Chiesa invece nella sua missione è fatta per superare queste divisioni, per fare una sintesi più alta.
Sì, ma nonostante le differenze e i diversi approcci, ciò che vediamo nella Chiesa è comunque un’unità dell’essenziale e penso che questa sia anche la prospettiva di Papa Francesco. Penso che tutta questa metodologia con cui il Sinodo si sta svolgendo, sottolineando tanto l’ascolto, cercando di vedere le ragioni dell’altro, penso che sia una metodologia in cui proprio si rafforza ciò che ci unisce, che è l’essenziale, e ciò che ci unisce è questa consapevolezza che Cristo è in mezzo a noi e che ci guida attraverso il suo Spirito. Questo è fondamentale, che siamo uniti nella celebrazione dei sacramenti. Poi ci sono prospettive diverse, però penso che ci sia soprattutto una consapevolezza di quello che ci unisce, che va sottolineato al di là delle differenze culturali che dovrebbero piuttosto arricchirci più che separarci.
(*) pubblicato su “Roma Sette”