1978 è l’anno del rapimento di Aldo Moro, che inaugura la fase più dura degli anni di piombo. Al Quirinale, il 9 luglio, sale il socialista Sandro Pertini, settimo presidente della Repubblica. E la Chiesa vive un evento straordinario, in tre mesi, tre papi si alternano sul soglio di Pietro: Montini, Luciani, Wojtyla.
La prima data è il 6 agosto. Quel giorno di 45 anni fa, nella festa della Trasfigurazione – “la giornata tramonta, tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena” – Paolo VI muore a Castelgandolfo. Sostituto alla Segreteria di Stato e poi pro segretario di Stato di Pio XII, Giovanni Battista Montini non era molto amato nei sacri palazzi e quanti si ritenevano fossero suoi amici con ostilità spesso venivano indicati semplicemente con il termine “montiniani”. Il primo novembre è nominato arcivescovo di Milano, ma non riceve la porpora per non far ombra, si disse, all’altro uomo forte della Curia, Tardini. Sarà Papa Giovanni XXIII appena eletto a crearlo cardinale, il 15 dicembre del 1958. Nel Conclave del 1963 l’arcivescovo dei lavoratori, come lo chiamavano nella diocesi ambrosiana, prevale sugli altri papabili. Per Papa Paolo VI la Chiesa “non è una società di assicurazione contro i mali della vita presente, anzi, è una società dove le sofferenze umane trovano un’accoglienza preferenziale”. Eletto a Concilio appena iniziato, Montini, chiamato dai suoi detrattori “Paolo mesto” e “Papa amletico”, resterà sempre uomo scomodo e non proprio gradito dalla curia. Nel gennaio del 1964 il primo viaggio pastorale di un Pontefice: la Terra Santa. Ai cardinali e vescovi in San Pietro dirà: “Vedremo quella terra veneranda di dove Pietro è partito e nella quale nessun suo successore è mai tornato”. Confuso e stretto dalla folla sulla Via Dolorosa, per l’inviato del Times di Londra Paolo VI “sembra un’isola di tranquillità in un mare in tempesta”. A Gerusalemme l’abbraccio con Atenagora, il primo incontro tra le Chiese cattolica e ortodossa: Pietro e Andrea si ritrovano insieme per recitare il Pater noster. Nei suoi nove viaggi internazionali sarà nell’India di Madre Teresa, all’Onu con il suo grido contro la guerra. L’8 dicembre 1965 si chiude il Concilio, messa sul sagrato della basilica vaticana – “la Chiesa in uscita” cara a Francesco – consegnando sette messaggi, ai governanti, agli intellettuali, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri e ammalati, ai giovani. Nemmeno due anni dopo consegna al mondo la Populorum progressio: lo sviluppo è il nuovo nome della pace. Per Papa Montini le “disuguaglianze clamorose, non solo nel godimento dei beni, ma più ancora nell’esercizio del potere”, sono uno scandalo. La povertà ci chiama in causa: “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza”. Se la Populorum progressio segna l’apice della popolarità di Montini, l’Humanae vitae, non capita e male spiegata, con la chiusura a ogni tipo di contraccezione, suscita grandi critiche e contestazioni. Gli ultimi giorni della vita sono scanditi dal rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, l’amico della Fuci. Montini scriverà agli uomini delle Brigate rosse e metterà a disposizione dei soldi per la liberazione del presidente della Dc. Al telefono, in attesa di un contatto che non avverrà, ci sarà un sacerdote: padre Carlo Cremona. In san Giovanni alla messa per Moro, il suo è il grido di un profeta dell’Antico Testamento quasi rimprovero a Dio, per dare eco al “pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce”.
Sono bastati quattro scrutini, il 26 agosto – ecco la seconda data – per eleggere Papa il patriarca di Venezia Albino Luciani, il primo Papa nato nel XX secolo. Curiosità, è il primo Conclave dal 1721 al quale partecipano tre futuri Pontefici: Luciani, Wojtyla, Ratzinger. In quei 33 giorni di pontificato, “il tempo di un sorriso” titolerà il quotidiano parigino Le Monde, oltre alla fede semplice e profonda di Albino Luciani, la sua fedeltà alla Parola di Dio e al magistero della Chiesa, emerge anche la sua attenzione ai problemi sociali. Sceglie di chiamarsi Giovanni Paolo, i nomi dei suoi predecessori Roncalli e Montini, e ai cardinali che lo hanno eletto dirà: “Dio vi perdoni per quello che avete fatto”. È il Papa che definisce Dio padre e madre, che invita il giovane chierichetto maltese, James, a dialogare con lui durante l’udienza generale e per parlare della fede recita la poesia di Trilussa della vecchina cieca. Commenterà: “Come poesia graziosa, come teologia difettosa”. Muore nella notte del 28 settembre per una crisi cardiaca: la sera a cena aveva accusato dolori al petto e al braccio sinistro e i suoi due segretari, mons. Magee e don Lorenzi, proposero di chiamare il medico: “È tardi, lo chiameremo domani”, disse Luciani. La mattina sarà suor Vincenza Taffarel a trovarlo morto nel letto. Una fine non accettata da molti tanto che subito si parla di mistero, di morte per avvelenamento da cianuro, ucciso perché troppo aperto e innovatore nella sua umanità e semplicità con la quale ha conquistato il mondo.
Il 16 ottobre viene eletto il primo Papa polacco, Karol Wojtyla: il suo pontificato durerà 26 anni, 5 mesi e 17 giorni. Come dire, almeno 8 legislature italiane, cinque presidenti degli Stati Uniti. Ha solo 58 anni, viene da Cracovia, figlio di quella Chiesa del Silenzio che sopravvive alla periferia dell’Impero sovietico. Primo non italiano eletto dopo 455 anni, Giovanni Paolo II ha attraversato la storia del ventesimo secolo lasciando una profonda eredità spirituale e politica. È stato testimone e artefice della caduta dei regimi dell’Est. Nell’omelia d’inizio pontificato dirà: non abbiate paura, aprite, spalancate le porte a Cristo; aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici. In piena Guerra fredda, sembrano parole fuori dal mondo. Ai giornalisti confesserà che nemmeno lui sapeva dove lo avrebbero portato quelle parole. È il primo Papa a varcare la Cortina di ferro, giugno 1979, viaggio nella Polonia sotto l’influenza di Mosca. Il 13 maggio 1981 l’attentato in piazza San Pietro, tre giorni fra la vita e la morte. Dirà: “Una mano materna ha deviato il proiettile”. È il Papa della profezia di Fatima, che verrà svelata nel santuario portoghese nel 2000, presente suor Lucia dos Santos, l’unica testimone delle apparizioni del 1917. Il 27 dicembre 1983 nel carcere di Rebibbia Wojtyla abbraccerà il suo attentatore Ali Agca. Al Gemelli sale il presidente Pertini, è l’inizio di un’amicizia che durerà negli anni. Quando il capo dello Stato verrà ricoverato al Policlinico Umberto primo, il Papa sarà in preghiera davanti alla porta della stanza. Wojtyla è chiamato il nuovo Mosè, il globe trotter di Dio, per i suoi numerosi viaggi, 104 quelli internazionali, cinquanta in più in Italia. Ha compiuto gesti che sono passati alla storia: la visita alla sinagoga di Roma, 13 aprile 1986, l’abbraccio con il rabbino Toaff, un viaggio di pochi chilometri per i quali sono occorsi duemila anni. Sei mesi più tardi chiama ad Assisi i leader di tutte le religioni, insieme per pregare per la pace. Ancora, Berlino, non più divisa dal muro, e quel passare sotto la porta di Brandeburgo da ovest verso est, giugno 1996, per dire che la libertà non è un lasciapassare. All’inizio della Quaresima del 2000 in San Pietro vuole la giornata del perdono. Sette “mea culpa” per le violenze, discriminazioni, e colpe commesse dalla chiesa nei secoli. È il Papa che chiede con forza la pace andando a Sarajevo, a Beirut ancora ferite dal conflitto. Che dice mai più la guerra prima dell’attacco americano in Iraq. Inventa le Giornate della gioventù: i giovani, dice, “sono il futuro del mondo, la speranza della Chiesa, la mia speranza”. Giovani che la sera del 2 aprile 2005, alla sua morte, saranno in preghiera in piazza San Pietro.
(Precedentemente pubblicato su “Toscana Oggi”)