Il testo è tratto dal paragrafo 32 della lettera pastorale “Effatà apriti” scritta nel 1990 dal cardinale arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, a cui ha fatto riferimento nei giorni scorsi il prefetto Paolo Ruffini nel suo briefing con i giornalisti e pubblicato dall’Osservatore Romano.
La comunicazione divina è preparata nel silenzio e nel segreto di Dio.
(…) Le costanti della comunicazione divina ci permettono di considerare ora alcune caratteristiche della comunicazione interumana che possiamo derivare dalla contemplazione del modo con cui Dio si rivela.
Ogni comunicazione autentica nasce dal silenzio. Infatti ogni parlare umano è dire qualcosa a qualcuno: qualcosa che deve anzitutto nascere dentro. Nascere dentro suppone un autoidentificarsi, un autocomprendersi, un cogliere la propria interiore ricchezza. Molte forme di loquela non sono vera comunicazione, perché nascondono un vuoto interiore: sono chiacchiera, sfogo superficiale, esibizionismo… Ogni vera comunicazione esige spazi di silenzio e di raccoglimento. Non è necessaria la moltitudine delle parole per comunicare davvero. Poche parole sincere nate da un distacco contemplativo valgono più di molte parole accumulate senza riflessione.
La comunicazione ha bisogno di tempo. Non si può comunicare tutto d’un colpo, in fretta e senza grazia. Se Dio ha diffuso una comunicazione tanto importante ed essenziale come quella dell’alleanza nell’arco di un lungo tempo storico, vuol dire che anche la comunicazione ha bisogno di tempi e momenti, è un fatto cumulativo, richiede attenzione all’insieme. A questo riguardo noi manchiamo spesso per disattenzione, fretta, superficialità. Occorre saper cogliere i momenti giusti senza bruciare le tappe.
Non bisogna spaventarsi dei momenti di ombra. Luci e ombre sono vicende normali del fatto comunicativo. Chi nel rapporto interpersonale vuole solo e sempre luce, chiarezza, certezza assoluta, dà segno di voler dominare piuttosto che comunicare, cade nella gelosia e si aliena l’altro, anche se in apparenza lo conquista. Dobbiamo accettare la “croce” della comunicazione se vogliamo giungere a quella trasparenza che è possibile in questa vita.
La trasparenza comunicativa raggiungibile quaggiù non è mai assoluta. Il volerla forzare oltre il giusto, oltre la soglia di quello che è il segreto, forse neppure accessibile del tutto a chi lo possiede, fa scadere nella banalità. Mi domando se alcune volte anche nei gruppi religiosi non si pratichi una comunicazione di sé che non rispetta il segreto di ciascuno.