Don Riccardo tra le vie di El Alto per contrastare prostituzione e povertà

Fidei donum bergamasco, prima di diventare prete Riccardo Giavarini aveva formato una famiglia con la moglie Berta e i loro cinque figli. Rimasto vedovo, è tornato a studiare teologia. Ordinato sacerdote, dedica la sua vita ad aiutare ragazze sfruttate e a portare aiuti ai meno fortunati. “Come cristiani che dicono di amare Dio, dobbiamo avere il coraggio – afferma – di farci carico di queste persone

Don Giavarini impegnato in un progetto formativo con le donne a El Alto (Foto Annechini/Missio)

Mentre la sera scende sulla collina di El Alto, nelle strade si accendono le luci dei pub e dei locali, negli allocamientos dove le ragazze aspettano i clienti. La città a oltre 4.000 metri sull’Altiplano delle Ande boliviane è quasi una periferia della capitale La Paz, e ospita tutte le vecchie e nuove povertà delle periferie urbane, tra cui la prostituzione, la tratta e lo sfruttamento minorile che rende schiave molte ragazzine costrette a vendersi per qualche decina di pesos boliviani (e non sono poche quelle che spariscono nel nulla). “È una dinamica che si ripete tutte le sere. Non dobbiamo contentarci di lamentarci di questa situazione, ma agire come cristiani. Che prete sono se non sono capace di amare la gente che soffre? Dobbiamo essere al loro fianco e combattere per la loro dignità”. Così don Riccardo Giavarini, fidei donum bergamasco da molti anni in Bolivia, racconta la sua missione nel video “E tu? Tu cosa fai?”, realizzato da Luci nel Mondo per la Fondazione Missio, tra il materiale per l’animazione della Giornata missionaria mondiale del 22 ottobre.

Seminario, famiglia, prete… Don Riccardo ha una esperienza molto speciale, declinata attraverso varie tappe della sua vita: giovane seminarista, negli anni Ottanta va in Bolivia per un’esperienza. Lì conosce Berta, si è sposano, hanno cinque figli. Con la sua famiglia, Giavarini da allora ha sempre vissuto in Bolivia, ed è diventato nonno. Dopo la morte di Berta, nel 2020, ha finito gli studi di teologia ed è stato ordinato sacerdote nella diocesi di El Alto. Racconta: “A 12 anni sono entrato nel seminario minore di Bergamo e poi nel maggiore; prima di cominciare la teologia ho deciso di fare una esperienza in America latina, in Bolivia, dove c’era un prete del mio paese. L’ho accompagnato nelle attività della pastorale giovanile a La Paz prima e a Cochabamba poi, dove ho fatto tre anni di teologia e attività in parrocchia con i giovani. In queste circostanze ho conosciuto Berta: ho abbandonato l’idea del sacerdozio per dedicarmi alla famiglia. Non solo ci identificavamo nei progetti che portavamo avanti – Berta soprattutto nell’ambito della formazione della donna –, ma come famiglia siamo sempre stati coinvolti nell’impegno sociale e religioso. Purtroppo mia moglie è morta due anni e mezzo fa”.

Un’opera sociale. Ora che è prete, la sua famiglia è diventata più grande e abbraccia tante “figlie” in condizioni di vita difficili. Per loro don Riccardo ha creato la Fundacion Munasim Kullakita (“abbi cura di te, sorellina” in lingua aymara) un’opera sociale della diocesi di El Alto, che sta diventando un punto di riferimento per i municipi, per le prefetture, per lo Stato e per la realtà sociale del territorio. La Fondazione si avvale di una équipe di 70 persone che lavorano anche a Cochabamba, Santa Cruz, nelle zone di frontiera, cercando di incidere nelle politiche pubbliche. Nel comune di Desagudero, al confine tra Bolivia e Perù, la Fundacion ha aperto la Casa Luz Verde per i migranti (soprattutto dal Venezuela) in transito, soprattutto ragazze e mamme con bambini.

“Fedeli al Vangelo”. Don Riccardo è attento anche a chi ha fatto esperienza del carcere, agli emarginati, per offrire una chance a chi ha deciso di cambiare vita. “A Casa Cantuta stiamo facendo accoglienza a persone che escono dal carcere, mentre in un’altra struttura, l’Hogar Trampolin sono ospitate adolescenti sotto i 18 anni strappate alla vita di strada e alle droghe inalate, il vuelo (colla) e la clefa (acquaragia)”, dice don Roberto, che conclude: “Come cristiani che dicono di amare Dio, dobbiamo avere il coraggio di farci carico di queste persone. Nessuno scommette su di loro, noi invece dovremmo essere capaci di restare fedeli al Vangelo per dare dignità, soggettività a queste vittime”.

Altri articoli in Chiesa

Chiesa