“Una teologia che possa contribuire a tessere reti tra le Chiese mediterranee e a costruire un Mediterraneo di pace”.
Questa motivazione ha spinto teologhe e teologi di Paesi che si affacciano sul Mare nostrum a elaborare il Manifesto per una teologia dal Mediterraneo, presentato giovedì 21 settembre agli Incontri del Mediterraneo “Mosaico di Speranza” in corso a Marsiglia.
“Il Mediterraneo è stato culla di storia, religioni, migrazioni, scambi economici e culturali, percorsi di pace e di progresso”, si legge nel Manifesto, tuttavia “oggi l’immagine del naufragio appare forse quella che meglio lo rappresenta, essendo diventato di fatto, per molti, una tomba” e “quello a cui assistiamo nel Mediterraneo è un naufragio di civiltà”. Il Mediterraneo è stato anche “grembo che ha visto sorgere il pensare credente, non solo quello cristiano”. Di qui l’“impegno è per una teologia che, facendo tesoro di questa millenaria tradizione, si riconosca come teologia dal Mediterraneo”. Accogliendo la “lezione magistrale” di Papa Francesco in questi anni, l’obiettivo è “lavorare per una teologia che dal Mediterraneo possa contribuire a generare percorsi di fraternità, condivisione e pace all’interno delle comunità credenti e in dialogo con quanti si spendono per la costruzione di un mondo fraterno. Ciò sarà possibile se si recupererà sempre più la dimensione affettiva, relazionale e agapica dell’umanesimo mediterraneo”.
La teologia dal Mediterraneo vuole praticare “il codice dell’accoglienza che non teme la pluralità” ed è “capace di un’ermeneutica della misericordia che sa promuovere la conoscenza dell’altro – chiunque egli sia: giudeo, cristiano musulmano, diversamente credente o non credente – nella ricchezza di cui è portatore, aprendo vie di autentico scambio nel tessuto globale mediterraneo sociale ed ecclesiale. Non più eurocentrata, è una teologia capace di attraversare le culture, attenta a riconoscere l’altro senza temere una possibile ‘contaminazione’, capace di dare voce alle differenti rive che circondano il Mediterraneo”. Una teologia dal Mediterraneo traduce nella sua prassi il principio del “dialogo a tutto campo”: “Al dialogo con le altre tradizioni religiose deve accompagnarsi un dialogo con le culture e con i diversi approcci del sapere alle domande profonde che riguardano la vita degli esseri umani”. Non solo: “Pastori e teologi, insieme al resto del popolo di Dio, desiderano superare quello che Papa Francesco ha più volte definito ‘divorzio’ tra teologia e azione pastorale. È tempo di oltrepassare antichi steccati e favorire nuove e feconde sinergie”. Inoltre, “una teologia del Mediterraneo non può non valorizzare la religiosità popolare come fede di popolo ed esperienza religiosa radicata in una tradizione credente”. Una teologia dal Mediterraneo è uno spazio del “tra”, quindi “va intesa come una ‘scienza delle frontiere’ in cui il mare diventa metafora classica della ‘navigazione’ aperta alla ricerca mai appagata e i ‘ponti’, le ‘strade’ e le ‘piazze’ del mondo antico divengono i simboli dell’incontro tra culture diverse”.
I firmatari del manifesto avvertono che la teologia dal Mediterraneo, “profondamente radicata nei vissuti ecclesiali”, “vuole essere fermento e lievito per una narrazione del Mediterraneo, ‘in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza’. L’opzione preferenziale per i piccoli e per i poveri dettata dal Vangelo diventa perciò opzione preferenziale per le minoranze”. Innanzitutto,
“fare teologia nel Mediterraneo vuol dire ricordare che l’annuncio del Vangelo passa attraverso l’impegno per la promozione della giustizia e il superamento delle disuguaglianze causa di marginalità”.
Non è possibile fare teologia “senza richiamare la necessità di una gestione non disumana e saggia dei flussi migratori, che non usi le migrazioni come pedina nella scacchiera della geopolitica internazionale, ma sappia accoglierne la provocazione per una reale presa di coscienza delle sfide del nostro tempo e per l’affermarsi di un più ampio senso della cittadinanza”. Non è possibile fare teologia “senza assumere l’impegno a difendere nelle nostre società il diritto alla ‘piena cittadinanza’”: “Si diventa pienamente cittadini quando si è posti nella condizione di poter contribuire a tutti gli effetti alla vita del Paese in cui si vive e che si sente come proprio, e quando a ogni uomo o donna vengono garantiti gli stessi diritti. A tutti deve essere riconosciuta questa possibilità, a prescindere dalla cultura a cui si appartiene o dalla religione che si professa. La piena cittadinanza reca in sé anche il diritto alla libertà religiosa troppo spesso calpestato o negato. Piena cittadinanza significa anche cittadinanza attiva, la sola capace di spezzare la logica della rassegnazione o dell’assuefazione e di fare da argine al moltiplicarsi dei sistemi di corruzione nella vita politica ed economica”.
Fare teologia nel Mediterraneo vuol dire contribuire a “tessere una rete tra le Chiese del Mediterraneo e attraverso di esse tra i popoli dei Paesi che si affacciano su questo mare.
La teologia dal Mediterraneo si pone al servizio della trama di relazioni che si sta costruendo tra i vescovi del Mediterraneo”: “È nostra profonda convinzione che solo insieme è possibile star dentro le sfide dei contesti mediterranei e che la comunione e lo ‘scambio di doni’ tra le Chiese delle diverse sponde aiuta a ritrovare il senso profondo dell’essere Chiesa nel continuo rigenerarsi del suo mistero dentro i cambiamenti e i drammi della storia. C’è uno stile sinodale, animato da sinceri sentimenti di fraternità, che va coltivato nelle relazioni tra le Chiese dei Paesi mediterranei e da vivere nel dialogo con le Chiese sorelle e con gli esponenti di altre tradizioni religiose”. Sottolineando l’importanza della “via del dialogo ecumenico”, viene evidenziato: “Un’autentica sinodalità ecumenica può essere un primo e importante segno di credibilità della testimonianza cristiana nei Paesi mediterranei ed è segno di speranza in un contesto lacerato da molteplici tensioni”.
Fare teologia nel Mediterraneo significa anche “non ignorare le diverse tensioni sociali, politiche e religiose, spesso causa di conflitto. L’orizzonte della fraternità universale sollecita il lavoro di una teologia della pace e per la pace, che con rigore ricerchi i fondamenti e le condizioni di possibili percorsi, capaci di ritessere i legami tra i popoli, lì dove ora regna la morte e di favorire esperienze di convivenza e amicizia sociale”.
Il “tra” che il Mediterraneo suggerisce è un “tra” che “unisce, include, mette in comunicazione le diversità”; un “tra” che è “incentivo alla pace e antidoto alla guerra”.
Ma “non ci può essere pace, né autentica amicizia sociale, se si rimane sordi al grido della terra e del mare. Superare la logica degli interessi di gruppo esige che si prenda sul serio la questione ambientale. Il Mediterraneo è tra i luoghi in cui è più drammaticamente evidente l’alterazione degli equilibri ambientali con le relative e ricorrenti catastrofi. Non ci sono soltanto persone che muoiono in mare, c’è anche un mare che sta morendo. Molte delle guerre in corso sono dovute alle conseguenze degli squilibri ambientali o almeno fanno leva su di esse: la siccità e la carenza d’acqua, la desertificazione crescente, le situazioni di miseria e di fame e l’uso dei beni di prima necessità come arma. La teologia ha il dovere di ricordare ai popoli del Mediterraneo che solo uno sviluppo integrato, in sintonia con l’ambiente, come è accaduto spesso e in molti luoghi del Mediterraneo, è destinato a generare futuro e che il creato non è luogo di rapina, ma casa comune di cui aver cura, liberandone le potenzialità di bene”.
Fare teologia nel Mediterraneo “può trarre nuovo impulso dall’attenzione all’esperienza religiosa”. Infatti, guardare all’altro, alla sua fede, nella prospettiva dell’esperienza religiosa, “può aiutare a fare di essa uno ‘spazio ospitale’, nel quale possano trovare accoglienza e riconoscimento le sensibilità proprie delle singole tradizioni e confessioni, in vista di un arricchimento vicendevole. Si tratta di assumere la comprensione che l’altro ha della propria esperienza di Dio e della propria fede, di allargare lo spazio sacro imparando a concepirlo e a viverlo non come uno spazio da presidiare, ma come un luogo dinamico e attivo, un confine mobile e modulabile che sposta i suoi limiti senza annullarli per creare un’accoglienza capiente”. Smilitarizzare le religioni contribuisce a “smilitarizzare le culture perché l’ospitalità reciproca diventi paradigma culturale e di pensiero, criterio di vita e di azione sociale”.
Il Manifesto si conclude con degli impegni che teologi e teologhe dell’area mediterranea assumono “a coltivare tutte le occasioni di confronto, di scambio e di riflessione per il rilancio di una proposta teologica che aiuti il Mediterraneo a riscoprirsi come ponte, mare del meticciato, e a costruirsi come arca di pace, ‘mare della fratellanza’”; a mettersi “a servizio di una teologia che dal Mediterraneo possa essere istanza critica e fattore di promozione di un umanesimo dell’accoglienza e della convivenza fraterna, per le popolazioni del Mediterraneo e per tutti coloro che al Mediterraneo guardano ancora con speciale attenzione”; “a lavorare insieme con i pastori perché, in una relazione di reciproco sostegno, noi teologi possiamo sentirci riconosciuti nella diakonia dell’intelligenza della fede e loro possano sentirsi accompagnati e incoraggiati nel loro delicato servizio di discernimento e responsabilità ecclesiale”.
“Che il Mediterraneo torni ad essere grembo di speranza: grembo e promessa di una fraternità possibile”, concludono.