Il secolo di un uomo vissuto solo 44 anni: quello di don Lorenzo Milani, nato il 27 maggio di cent’anni fa a Firenze da una famiglia benestante e colta. Come scrisse in quegli anni Marguerite Yourcenar, l’autrice di Memorie di Adriano, alcuni uomini (lei pensava al protagonista del suo libro e a Lawrence d’Arabia), decidono di rinunciare al qui per accettare l’altrove. Per i personaggi di Yourcenar quell’altrove era fisico, geografico, l’Asia, l’Arabia, la Grecia. Per Lorenzo, e come vedremo non solo per lui, invece si trattava del viaggio nella zona oscura di un occidente lì vicino, a Calenzano e poi a Barbiana, dove avvenne la celebre esperienza di alfabetizzazione degli ultimi, dalla quale sarebbe scaturito il celebre Lettera a una professoressa, edito lo stesso anno della sua morte.
Quello che colpisce di questa sua nuova stagione, che oggi può essere approfondita grazie anche al bel libro curato da Michele Gesualdi (e con prefazione del cardinale Matteo Maria Zuppi), “Lettere” (San Paolo, 359 pagine, 20 euro) è la sua radicalità, che lo ha portato alla rinuncia del suo vecchio sé.
Quando da sacerdote attacca una certa politica e una economia basata esclusivamente sul profitto, lo fa da autentico convertito: vale a dire uno che non ha rinunciato solo ai soldi di casa e ad un avvenire di studente universitario e poi di docente o dirigente, ma anche alla sua stessa cultura, alla sapienza intellettuale, al paternalismo di chi sa e si china su chi invece non sa.
No, per Lorenzo si tratta di cancellare e resettare. Dimenticare l’io di prima, passare alla lingua degli esclusi, mettersi a disposizione di chi non possiede nulla e che magari a dodici anni invece di andare a scuola va ad aiutare i genitori nel duro lavoro della campagna. Ha dimenticato se stesso e si è fatto uomo nuovo per permettere a quei poveri ragazzini di scrivere e a far di conto perché possano partire dallo stesso start dei più fortunati.
La meritocrazia non teneva conto di questo, e senza neanche rendersene conto praticava una selezione di classe e non di merito.
Contro questa selezione darwiniana si era schierato un uomo che aveva deciso di sparire e di ricominciare da capo nei Cinquanta del secolo scorso: come fa a gareggiare per il merito un ragazzino che non può permettersi neanche di studiare?
Una situazione del genere è stata descritta da uno scrittore come Saverio Strati nel suo “Il selvaggio di Santa Venere”: un maestro che va avanti, ignorando chi rimane indietro e abbandonandolo ad un destino di isolamento e minorità. Rischiando di creare disadattati e derelitti laddove avrebbero potuto nascere sensibilità profonde accompagnate dal dono dell’espressione attraverso la parola e la scrittura.
Con, inoltre, un effetto di ritorno che già da solo vale una vita: come scrisse una volta don Lorenzo, “io ho insegnato loro soltanto ad esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere”.
Il mistero di giovani colti e destinati ad un futuro di primo piano nella letteratura o nella cultura che decidono di abbandonare tutto non è poi così tanto fitto: Clemente Rebora, dopo aver scritto nel 1913 uno dei capolavori poetici del Novecento, “Frammenti lirici”, decise di entrare tra i Rosminiani e di sparire al mondo. La cultura fine a se stessa era fonte di nausea e di solitudine interiore. Solo l’essere-per-l’altro appariva l’unica strada percorribile. Scendere dal piedistallo e ricominciare dagli ultimi da ultimo è stata l’esperienza di rinascita che nei secoli ha rappresentato la salvezza dal non senso e dalla nausea di sé, come due giovani umbri avevano insegnato senza neanche averne la consapevolezza. Per Benedetto e Francesco, e anche per Lorenzo come per molti altri, non era più tempo di parole.