“A Cipro ho visto una specie di Pentecoste, tutte le chiese del Medio Oriente insieme, un qualcosa di profetico”.
Esordisce così il patriarca di Antiochia dei Maroniti (Libano), card. Bechara Rai, parlando del recente Simposio “Radicati nella speranza”, che si è svolto recentemente a Nicosia (Cipro) promosso dalla Roaco (Riunione delle Opere di Aiuto alle Chiese Orientali), per ricordare i 10 anni della firma dell’Esortazione apostolica postsinodale “Ecclesia in Medio Oriente” di Benedetto XVI avvenuta ad Harissa (Libano) il 14 settembre del 2012 e al quale hanno partecipato oltre 250 rappresentanti delle Chiese cattoliche del Medio Oriente. I ricordi del cardinale vanno dritti al Sinodo per le Chiese del Medio Oriente (2010), voluto sempre da Benedetto XVI per – sono parole del Pontefice tedesco – “per riflettere insieme, alla luce della Sacra Scrittura e della Tradizione della Chiesa, sul presente e sul futuro dei fedeli e delle popolazioni del Medio Oriente”. “L’Esortazione post-sinodale – dichiara al Sir il card. Rai – è come se fosse stata scritta per il Medio Oriente di oggi perché riporta valori e princìpi che si applicano alle situazioni in atto. Questa esperienza inter-ecclesiale del Simposio ci ha dato un forte impulso. Ritorno in Libano pieno di speranza”.
Esortazione attuale. Una Esortazione attuale soprattutto per il Libano, paese afflitto da una grave crisi politica, economica e finanziaria che si trascina da anni, amplificata dalla esplosione mortale nel porto di Beirut del 4 agosto del 2020 e dalla politica del ‘muro contro muro’ praticata da quella classe politica che invece dovrebbe dare delle risposte al popolo oramai ridotto in povertà. Circa possibili soluzioni il cardinale ha sempre avuto le idee chiare, espresse nelle sue omelie domenicali e in un suo programma settimanale di formazione cristiana nel quale, spiega, “applico il Vangelo alla vita sociale e politica del Libano. Qualche settimana fa – rivela – avevamo iniziato un ritiro spirituale con i deputati cristiani di tutte le confessioni. Ora appena tornato da Cipro, partendo da questa Esortazione, proporrò un incontro con tutti i deputati, sia musulmani che cristiani, per affrontare i problemi scottanti enunciati nell’Esortazione. Un lavoro che ci tornerà utile a livello ecclesiale, sociale, nazionale”.
Un contesto difficile. Intorno al Paese dei Cedri si agitano, e non da adesso, gli spettri delle guerre in Siria e prima ancora in Iraq che altro non sono che le conseguenze del conflitto “tra l’Arabia Saudita, sunnita, e l’Iran sciita. Due potenze che cercano di dominare e di arrivare al Mediterraneo servendosi della Siria, del Libano, dei sunniti e degli sciiti di questi Paesi e così via. Ma se in Siria e in Iraq la guerra tra sunniti e sciiti è tracimata con l’uso delle armi, in Libano ha assunto toni marcatamente politici con Hezbollah, che grazie alle armi e al denaro dato dall’Iran, impone la propria volontà affermandosi come uno Stato nello Stato. Vuole essere definito ‘partito’ pur non avendone il riconoscimento statale”. La priorità per il Paese, ribadisce il cardinale, “è avere un Presidente della Repubblica, che secondo il patto nazionale deve essere un cristiano maronita”. Spetta al presidente, oggi Michel Aoun, il cui incarico è terminato alla fine dello scorso ottobre, avallare leggi e riforme eventualmente varate dal Governo di Najib Mikati, dimissionario e in carica solo per gli affari correnti. “Sciogliere il rebus del Presidente – aggiunge il porporato – è fondamentale per superare l’impasse istituzionale. I gruppi politici che fanno capo all’attuale Governo sono tutti nemici tra di loro, ciascuno impone la propria forza politica o militare, rendendo vana ogni possibile soluzione o accordo su un nome. Gli sciiti hanno preso forza e si stanno comportando come se il Libano fosse il loro. Come candidato a presidente hanno proposto Suleiman Frangieh, uomo di Hezbollah, e da lì non si muovono così diventa impossibile trovare un altro nome. Ciò è illogico e antidemocratico” sentenzia il patriarca maronita. L’ostinazione degli sciiti su Frangieh, secondo il patriarca, “nasce dalla paura che non possa essere eletto. Lo scenario che abbiamo davanti è quello di un Libano dimenticato e boicottato dalla comunità internazionale come accadde quando era Presidente il generale Aoun, sostenuto da Hezbollah. Dopo l’esplosione al porto di Beirut tutti gli Stati dissero di voler aiutare il popolo libanese ma non il Governo. Boicottano il Libano che ritengono la Repubblica di Hezbollah. Il popolo ha perso fiducia nei propri politici”.
Votare il presidente. Per smuovere le acque il card. Rai ha avviato un’iniziativa personale: “ho raccolto i nomi di 15 potenziali candidati a Presidente così come sono stati descritti dai giornali, più altri 5 nomi da indicare e aggiungere alla lista, per un totale di 20 candidati. Ho inviato il tutto, sotto stretto riserbo, alle diverse fazioni cristiane e musulmane invitandole a scegliere tre candidati. Quasi tutti hanno risposto, manca una sola comunità che deve rispondere. Se ci saranno dei nomi che vanno per la maggiore chiederò a tutti di trovare una via di uscita e di votare il presidente”. Alla proposta si affianca, ancora una volta, la denuncia che il cardinale ripete ogni domenica e che sintetizza così, senza mezzi termini: “ai politici dico che sono dei criminali perché stanno distruggendo il Libano e affamano il popolo. Chi ha dato loro il diritto di non eleggere il presidente? Hanno il dovere di eleggerlo. Senza Presidente è tutto paralizzato. Se questo stato di cose persiste è perché ci sono interessi in ballo. Stanno smontando il Paese pezzo a pezzo”.
Guerra tra poveri. C’è poi un’altra guerra che si sta consumando in Libano, ed è quella tra i libanesi e i rifugiati siriani e palestinesi, poco più di due milioni su una popolazione totale di sei. “È una guerra tra poveri – ammette il card. Rai -. Il Libano chiede per i siriani il ritorno volontario, dignitoso e sicuro nel loro Paese. Ma nessuno vi farà ritorno perché la comunità internazionale versa loro mensilmente fino a 250 dollari, una cifra che nemmeno un alto funzionario libanese tocca in questo momento. Senza contare le agevolazioni di cui godono come tasse, scuole, bollette di luce e di acqua. Si stima che nascano ogni mese 30mila nuovi nati siriani. Alla comunità internazionale – spiega il porporato – diciamo di aiutarli in Siria, ma la risposta è sempre la stessa: mai finché Assad resta a capo della Siria. È una questione politica: non vogliono riconoscere che Assad ha vinto la guerra”.
Libano-Messaggio. Di quel Libano-Messaggio, immagine cara a San Giovanni Paolo II, oggi sembra restare poco o nulla. La spinta demografica data dai neonati dei rifugiati siriani, in larghissima maggioranza sunniti, rischia di minare il sistema politico libanese. Una loro eventuale futura naturalizzazione potrebbe provocare, secondo il patriarca, “la caduta del sistema politico del Paese, oggi repubblica parlamentare, in cui gli equilibri istituzionali sono regolati dalla ripartizione del potere su base etnica e religiosa”. Secondo tale schema, di norma, il presidente della repubblica è un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del Parlamento un musulmano sciita. “La convivenza in Libano è basata sulla Costituzione – ribadisce -. Il popolo mantiene questa convivenza perché viviamo insieme ovunque. Il Libano, poi, – sottolinea – tiene separati Religione e Stato. Da noi convivono due culture diametralmente opposte: quella cristiana che va nella direzione della laicità, mentre i musulmani tendono all’islamizzazione. La cultura libanese prevede il rispetto, la tolleranza, e la comune partecipazione politica. Questa è la formula che san Giovanni Paolo II aveva definito Messaggio. Possiamo vivere insieme. Siamo un Paese pluralista da un punto di vista politico, culturale e religioso. Solo il Libano – conclude – ha firmato la Carta dei diritti dell’Uomo. In nessun altro Paese arabo, c’è la libertà di espressione e di coscienza”.