(da Salerno) – “Non è facile raccontarsi specie se la tua vita o gran parte di essa è stata un disastro. Non sono stato un buon figlio e neanche un buon padre”. Salvatore Ferrigno, 58 anni, napoletano nato nel cosiddetto “triangolo delle Bermude” ossia i quartieri San Giovanni, Barra e Ponticelli, note zone dello spaccio. Salvatore ha poi frequentato il paese di San Giuseppe Vesuviano. Ha una storia dolorosa alle spalle, che ha voluto condividere con i 660 delegati delle Caritas diocesane di tutta Italia riuniti in questi giorni a Salerno per il 43° Convegno nazionale. Dalla droga conosciuta ad 11 anni fino al carcere napoletano di Poggioreale, dove ha trascorso cinque anni, in periodi diversi. È stato denunciato dalla madre, in un tentativo disperato per cercare di sottrarlo ad ambienti pericolosi. Poi un paio di storie familiare andate male e un figlio che non vede da 22 anni. La perdita del lavoro e la caduta inesorabile: la strada. “Ho iniziato a dormire in macchina, non avevo più niente, neanche la forza per ricominciare”. Ha avuto però il coraggio di entrare alla mensa della Caritas diocesana di Nola. Lì è iniziato il suo cammino di rinascita.
“Da piccolo ho fatto a pezzi i miei sogni crescendo troppo in fretta e prendendo strade sbagliate
– racconta Salvatore -. Ho girato tanto, viaggiando da città a città, percorrendo chilometri e chilometri di asfalto dove spesso mi sono perso, ma non ho mai abbandonato il sogno di diventare un uomo normale. Sono stato giù all’inferno e quando dico inferno parlo di fuoco e di fiamme che hanno lasciato segni indelebili sul mio corpo ma più di tutto dentro di esso, dentro di me”.
Quando è uscito dal carcere di Poggioreale la vita non è migliorata, tutt’altro: “Quando esci per la gente sei una sorta di virus infettivo da allontanare. Nessuno ti dà più fiducia”. Ha chiesto aiuto ai genitori e dopo la loro morte ha cercato di creare una famiglia. Un matrimonio, un figlio e poi la separazione. Una nuova compagna con quattro figli, ma anche questa storia, dopo sei anni di convivenza, è andata male.
“Con la perdita del lavoro ho perso di nuovo tutto: casa, famiglia e amicizie”.
Salvatore era diventato di fatto un senza fissa dimora. “Avevo perso ogni speranza, ero diventato come un morto che cammina. Ricordo quel giorno come se fosse ieri, quel mio camminare senza una meta, all’improvviso mi sono ritrovato sotto ad un portone, sono entrato, la porta era aperta, c’erano tante persone, era la mensa della Caritas”.
La Caritas di Nola inizialmente per lui era solo il luogo “dove danno il pacco viveri”. È stato accolto e rifocillato. Gli hanno dato un letto per dormire. Ha raccontato la sua vita agli operatori del Centro di ascolto.
“Da quel giorno ho deciso di ricominciare, di ritentare. Sono stato accolto in questa grande casa dove è iniziata per me una nuova vita.
Ed è così che ho iniziato a credere che non tutto era finito, che mi ero perso e che Dio mi avevo ritrovato”.
Salvatore si è impegnato ma non sono mancati momenti difficili. “Un momento forte è stato quando ho dovuto accogliere la mia ex compagna e i suoi figli nel nostro condominio solidale – ricorda -. Un giorno me li sono ritrovati sotto il portone, erano stati sfrattati. Mi trovavo davanti proprio le persone che mi avevano cacciato fuori tempo addietro. Non ero arrabbiato, mi sono sentito triste. Ho cercato di rincuorarli nonostante il male che mi avevano fatto e la ferita che ancora ho nel cuore. Ecco, in quel momento ho sentito che l’esperienza di accoglienza che stavo vivendo in Caritas mi aveva aiutato ad andare oltre”. Salvatore ha compreso che l’errore era servito a dargli una nuova opportunità ed ha iniziato a riprendere in mano la propria vita. “Mi sono sentito come a casa mia ed era tutto così nuovo, avevo trovato una nuova famiglia, fatta di colori diversi, di idee e opinioni altrettanto diverse, ma uniti da un unico amore, l’amore verso gli altri, l’amore di Dio. Ed è così che ho ripreso a sognare, con la sola differenza che questa volta non ero più da solo, insieme a me in questo nuovo viaggio avevo trovato amici nuovi”.
Ci sono voluti cinque anni per uscirne del tutto. Quando gli è stato annunciato che la sua permanenza in Caritas era terminata e doveva lasciare la struttura si è arrabbiato. Ha discusso con il suo educatore. “Mi dicevo: perché vogliono mandarmi via? La mia era solo paura della normalità”. Poi ha capito che non era una espulsione o una punizione e si è fidato. Doveva diventare di nuovo protagonista della propria vita.
Ora Salvatore lavora come educatore alla pari a “Mondominio”, una struttura della Caritas di Nola a San Giuseppe Vesuviano: “Se venite a trovarmi vi offro una sfogliatella”. Ha preso in affitto una casa ed è membro dell’equipe della Caritas diocesana. “Cerco solo di restituire agli altri ciò che mi è stato donato. Cerco di mettere a frutto la mia esperienza a servizio di chi vive un momento brutto della propria vita”. “Mi piace pensare che la felicità non è uno stato di cose duraturo, ma un susseguirsi di attimi e che, se non ti riconosci in almeno uno di essi, non potrai mai dire di essere stato felice”, conclude.