Il venerdì e il sabato della Settimana Santa sono i giorni più imbarazzanti e teologicamente complicati per chi speri di propagandare il Cristianesimo come una religione “efficace”, “utile” ai tempi presenti, “solare”. Eppure essi non sono che l’esito ultimo del desiderio inclusivo della Trinità, il Dio che da sempre ha la vocazione all’alterità, che in questo suo desiderio ha creato, e poi ha salvato, immischiandosi nella turbolenza creaturale mediante il Verbo che è divenuto uno di noi.
Tuttavia dobbiamo ricordare che l’incarnazione è un processo dinamico, non è circoscritta al concepimento di Gesù nel grembo della Beata Vergine: man mano che avanza nella storia degli uomini, il Figlio ne assume tutte le realtà, le più belle come le più abiette, e solo con la sua ascensione e glorificazione alla destra del Padre questa sua incarnazione/assunzione dell’umano si è compiuta, avendo l’umano e il divino raggiunto reciprocamente il pleroma, la pienezza in tutte le cose.
In particolare, nelle atrocità del Venerdì Santo il Signore assume ciò che rende la sua incarnazione davvero umana, e cioè la sofferenza incapacitante, il morire, e l’essere un morto: senza questi eventi, sarebbe stata un’incarnazione per modo di dire.
Oggi sul cruento talamo nuziale della Croce si consuma il drammatico amplesso tra il divino e l’umano, che per mezzo dei chiodi si legano indissolubilmente, “nella gioia e nel dolore”, come si promettono tutti gli sposi, anche se pochi, poi, riescono nel dolore a mantenere questa promessa.
Che poi, a ben pensarci, di gioie te ne abbiamo date ben poche, Signore… ma no, dobbiamo cacciare questo pensiero inutilmente deprimente: se è proprio degli animi nobili e sensibili vedere in tutto la bellezza, possiamo confidare nel fatto che Gesù abbia saputo godere delle cose buone che nel mondo il Padre dissemina per i suoi figli, tanto quanto ha saputo accogliere la sofferenza e la morte.
La vita terrena di Gesù non è stata solo una “valle di lacrime”, per carità! Ritenere questo sarebbe farne svanire la reale umanità, tanto quanto lo farebbe cassarne, all’opposto, il dolore. La verità è che ogni vita umana serba entrambe: luci e ombre, gioie e dolori, beni e mali, e il Signore se li è assunti tutti, e ha vissuto la dolcezza dell’amicizia e l’appagamento del lavoro fisico tanto quanto la calunnia e le torture, e oggi quello che muore è l’Uomo, cioè l’assolutamente Uomo perché pienamente tale, privo del peccato, che di umanità gliene avrebbe tolta parecchia, l’Uomo che muore della morte per eccellenza: la morte subìta ingiustamente, in cui la passività della creatura dinanzi al suo ineluttabile destino, il morire, è portata all’estremo.
E in questa morte archetipa, la morte dell’Uomo archetipo, è inclusa ogni morte: ogni morte è una morte di croce, perché nel morire l’uomo è “inchiodato a se stesso”, per usare un’espressione del filosofo Emmanuel Levinas circa il peso della soggettività a se stessa, peso che nel morire si fa totale e ineluttabile – non è un caso che chi viene crocifisso di fatto si uccide lentamente da solo, asfissiandosi col proprio peso, come a indicare che di quella morte la responsabilità se la deve prendere il morto stesso.
Ci turba un po’ che Cristo sia morto davvero, dobbiamo ammetterlo al di là dei manierismi baroccheggianti.
Non è così? E allora perché rifiutiamo costantemente la realtà della morte nella nostra vita? Preti compresi…
Una parte ansiosa e controllante in noi è seccata che per un giorno all’anno (due con il sabato) gli atei abbiano ragione, e la loro visione del divino sia azzeccata. Non ci piace l’idea che dentro Cristo tutto si sia fatto buio e silenzioso, anche se per un paio di giorni soltanto, tant’è che ci siamo sbrigati a raffigurare la sua discesa agli inferi come una gagliarda aggressione militare a un regno avverso, per non dover pensare troppo alla reale e totale passività, al completo abbandono cosificante, del Cristo morto.
Il fatto è che proprio questo suo morire per davvero ha vinto la morte e, come contempleremo domani, gli inferi sono stati battuti perché la Parola fatta uomo si è immersa nel silenzio del sepolcro con i defunti, come si era in precedenza immersa nelle acque del Giordano con i peccatori.
È l’amore che vince la morte e l’inferno, non la forza. L’amore che diventa comunione ristabilita, proprio in quelle due realtà che più sono antitetiche alla comunione: il peccato e l’incomunicabilità della morte, appunto.
Il mondo si è fermato al venerdì, e deride ancora oggi un Cristo morto appeso.
Noi, partecipi della domenica, da questa vittoriosa sconfitta e da questo amore spezzato e riversato nel nostro nulla possiamo imparare a non avere più paura.