In questa Quaresima abbiamo voluto osservare, di domenica in domenica, come lottano tra di loro in noi i pensieri malvagi suggeriti dalla tentazione e quelli luminosi provenienti dallo Spirito Santo; con la quinta e ultima domenica di Quaresima questa lotta arriva alle radici del conflitto: Cristo, stando davanti alla soglia del sepolcro chiuso dell’uomo (perché in Lazzaro c’è ogni uomo, di cui Cristo vorrebbe essere amico), sta davanti alla sorgente gelida di ogni pensiero maligno e scoraggiante che nasce, appunto, dalla paura della morte.
La morte, unico vero e grande potere che opera nel mondo naturale, e tira le somme per tutto ciò che è, dal singolo vivente all’intero universo destinato all’entropia, nell’uomo, unico animale cosciente del proprio morire, si esprime anzitutto come angoscia atematica, anelito forsennato di vita, incertezza circa le possibilità di salvare la pelle; Adamo ha cercato in se stesso il principio e si è staccato da Dio, ma dentro di sé ha trovato solo il bios fuggevole, la nudità esposta, il bisogno incompiuto… un contenitore ormai vuoto, che mai avrebbe sperimentato questo vuoto, se fosse rimasto nella relazione.
Rinunciando al suo destino (la gloria), l’uomo rimane solo con il suo fato: essere biodegradato, come tutto il resto: “manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni”(Gv 11, 39).
Ecco perché la Lettera agli Ebrei asserisce che il diavolo ha il potere della morte (cfr. Eb 2, 14): tutte le tentazioni hanno la loro origine nella paura della morte, propria dell’uomo che vuole sopravvivere al suo vuoto; infatti prima il tentatore ha convinto l’uomo a ficcare la faccia nel vuoto diffidando dello sguardo di Dio su di lui, e poi gli suggerisce di scampare al vuoto che lo ha atterrito anestetizzandosi col piacere, rassicurandosi con le conferme degli altri, stabilizzandosi con il potere e il controllo – con il risultato che questo vuoto in realtà cresce sempre più, perché i godimenti non bastano mai e per quanto mangi o copuli la morte non la sconfiggi ma anzi la moltiplichi (muore quello che mangi e muore come te chi generi), e le conferme non bastano mai perché il dubbio rode e rimane, e alla fine tutto avvizzisce e viene messo da parte, e il controllo non basta mai perché non possiamo controllare la nostra corsa verso la morte, e nemmeno l’imbiancamento di un capello.
E l’uomo, pur dimenandosi e ribellandosi, finisce nella tomba, da cui per tutta la vita aveva provato a fuggire.
E Dio sta lì, davanti alla tomba dell’uomo, e piange (cfr. Gv 11, 35).
Nel pianto di Cristo per Lazzaro c’è il pianto di Dio per l’uomo, per il suo uomo, per la brutta fine che ha fatto. “Ma come ci sei finito lì?”, sembra chiedere Dio, addolorato e attonito. “Io ti ho creato per la vita e per la gloria… perché ti sei infilato in quel buco? Perché hai creduto a chi ti diceva che non c’erano per te altre case, che quella tomba?”.
Sembra di sentire la beffarda risata di vittoria del nemico, che da quelle stesse tenebre del sepolcro deride Dio mostrandogli il suo capolavoro ridotto a marciume… ma Dio non ci sta, e tira fuori l’uomo dalla morte.
Cosa esattamente fa sì che l’uomo resusciti? La fiducia del Figlio.
Non è Gesù a resuscitare Lazzaro: è il Padre. Gesù ratifica l’opera del Padre, chiamando fuori Lazzaro dalla tomba, perché la vita resta incompiuta senza relazione, ma il Padre l’aveva già resuscitato, quando Gesù si era presentato davanti alla tomba: “Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato” (Gv 11, 41-42).
Questo non è un “semplice” racconto dell’ennesima rianimazione di un cadavere, come ce ne sono stati altri nei Vangeli. Non è un miracolo tra altri. Ciò che rende il racconto così speciale e decisivo, è che qui il Figlio decide come stare davanti al suo futuro prossimo, come decide di stare davanti all’incognita della sua imminente Passione, tra la fiducia nella promessa di suo Padre, e la paura che fa fremere la sua carne ereditata dalla Madre.
Davanti alla tomba, così come poi sulla Croce, Gesù si fida, come si era fidato Abramo, che infatti riebbe Isacco “come un segno” di quanto sarebbe avvenuto al Figlio di Dio (cfr. Eb 11, 19), in riferimento a una certa interpretazione già ebraica del brano di Genesi 22, secondo la quale Isacco sarebbe stato ridato ad Abramo dopo che questi lo avrebbe sacrificato, e dunque sarebbe stato resuscitato.
Gesù si fida, e sa che quanto avviene al suo amico è il segno che Dio dà a lui di quanto sarebbe avvenuto di lì a poco anche a lui, e cioè che il Padre non lo avrebbe abbandonato nel nulla.
Gesù si fida dell’amore, e questo è l’unico atteggiamento che può davvero contestare la paura e i pensieri che da essa derivano e costantemente ci aggrediscono.
Fidarsi dell’amore per noi è difficile, perché abbiamo familiarizzato troppo con la morte e la tristezza, e l’amore ci sembra implausibile ed estraneo, oppure pensiamo di ridurlo, come la Samaritana, a quello che la nostra meschinità intende per amore, e che in realtà è una variante della paura.
Eppure questa è la vera sfida quotidiana, la vera lotta che siamo chiamati ad affrontare ogni volta che ci si palesa il vuoto: fidarci o fuggire, accogliere o arraffare, attendere o affrettarsi. Nello scenario della Settimana Santa vedremo entrambe queste possibilità all’opera: starà a noi decidere quale parla davvero al nostro cuore, e ci prospetta cose migliori.