“Il decimo anniversario dell’elezione al soglio petrino di Papa Francesco dovrebbe costituire per i credenti un momento di serio discernimento rispetto a quello che reta loro da fare nel tempo che viene”. Ne è convinto mons. Armando Matteo, segretario per la Sezione dottrinale del Dicastero per la Dottrina della fede, che nel suo ultimo libro, “Opzione Francesco” (Edizioni San Paolo), legge l’eredità della prima decade del papato di Bergoglio come un’occasione per costruire, insieme, la Chiesa del futuro. Lo abbiamo intervistato.
Il 13 marzo del 2013 si affacciava alla Loggia delle Benedizioni un papa “venuto dalla fine del mondo”, come lui stesso si è definito, che rappresentava una novità per i fedeli e anche per la maggioranza degli addetti ai lavori. Dieci anni dopo, quale bilancio si può trarre?
Per quanto mi riguarda, nutro la forte impressione che in questi dieci anni la maggior parte di noi credenti – e specificatamente di noi cattolici occidentali – siamo rimasti per così dire quasi a guardare quel che Papa Francesco portava di nuovo con il suo pontificato. Abbiamo applaudito, è vero. Abbiamo condiviso, è vero. Abbiamo vissuto intense emozioni insieme con lui, è vero. Abbiamo letto quasi tutti i suoi documenti, o quantomeno ne conosciamo l’esistenza, è vero. Abbiamo fatto tante chiacchiere, è vero. Abbiamo criticato, è vero.
Non mi pare, tuttavia, che abbiamo fatto molto rispetto a quello che Papa Francesco ci ha chiesto in merito al cristianesimo futuro.
In una parola, mi pare di poter dire che non ci siamo sintonizzati fino in fondo che Papa Francesco, non ne abbiamo finora fatto nostra la sua opzione di fondo: l’opzione di ravvivare la maternità della Chiesa.
Da dove dovremmo partire, secondo lei, per declinare l’”opzione Francesco”?
Dalla constatazione che la pastorale attuale – cioè il modo in cui la Chiesa oggi “dice” a tutti Gesù allo scopo di far nascere in tutti un desiderio di Gesù – non funziona più. I credenti, infatti, dicono Gesù ma non riescono in alcun modo a far nascere, in coloro ai quali si rivolgono, un possibile desiderio di Gesù. E dunque la pastorale attuale semplicemente non funziona.
Quel che serve, allora, alla Chiesa è un radicale cambiamento di mentalità pastorale, in grado di fare ciò che ora non riusciamo a fare: permettere agli uomini e alle donne del nostro tempo, specialmente ai giovani e alle giovani, di innamorarsi di Gesù e di decidersi per una fede possibile in lui.
E’ certamente vero che la Chiesa affronta al momento anche altre situazioni difficili e in alcuni casi particolarmente gravi – basti citare la questione degli abusi sessuali e di potere perpetrati da parte del clero – ma la sua crisi vera resta una sola: la denatalità. Quando la Chiesa perde questa sua dimensione di fecondità e di maternità, perde tutto e si riduce ad altro, che po’ forse essere anche interessante e utile, ma che non ha più a che fare con la missione che Gesù ha affidato ai suoi discepoli. In questi dieci anni di pontificato, Papa Francesco ha incessantemente ricordato la destinazione universale del Vangelo: non importa quanto siamo nella Chiesa, il punto è che siamo qui per tutti.
Ogni riforma, e tutte le riforme nel suo insieme, hanno lo scopo di dare nuovo sangue e nuova carne a quello che Papa Francesco, al n. 31 dell’’Evangelii gaudium, chiama “il sogno missionario di arrivare a tutti”.
Quanto siamo lontani dalla “Chiesa in uscita” auspicata da Bergoglio fin dall’inizio del pontificato?
A questo proposito, occorre raccogliere la seconda indicazione di metodo che ci deriva dall’opzione Francesco: i credenti non possono semplicemente restare a contemplare quello che capita al cristianesimo sotto le condizioni dell’avvento del cambiamento d’epoca e della fine della modernità.
Il Papa raccomanda ai credenti di prendere l’iniziativa, e lo fa con un neologismo – “primerear” – che è esattamente l’opposto di un altro neologismo, “balconear”, cioè stare a guardare la vita dal balcone.
Prendere l’iniziativa è un rischio, ma per Francesco non ci sono alternative, se non il “si è sempre fatto così”, la ripetizione fallimentare di ciò che si è sempre fatto, anche in assenza di risultati positivi.
“Vicinanza, compassione, tenerezza”, è la triade citata a più riprese dal Santo Padre per esprimere lo stile di Dio. Anche questo richiede un cambio di “postura”.
Fin dal suo primo Angelus in piazza San Pietro, il 17 marzo di dieci anni fa, Papa Francesco non si è mai stancato di proclamare che la prima e fondamentale rivelazione che Gesù compie è quella della misericordia del Padre. Quando nel 2016 indice il Giubileo della Misericordia, il Papa ricorda che la misericordia è “il messaggio più importante di Gesù” e legge quello che stiamo vivendo “un tempo di misericordia”, nel quale la Chiesa è chiamata a mostrare “il suo volto materno, il suo volto di mamma, all’umanità ferita”.
Ripartire dall’opzione Francesco significa assumere un atteggiamento credente che si sa sempre con le porte aperte: con le porte aperte dei nostri luoghi di culto e ancora di più con le porte aperte del nostro cuore a chiunque.
Noi credenti siamo chiamati a diventare eco e artefici di quello che il Santo Padre, nella Fratelli tutti, chiama un “nuovo sogno di fraternità”, reso sempre più urgente dalle particolari circostanze storiche nelle quali ci troviamo a vivere, dopo la terribile pandemia di Covid-19, lo scoppio del confitto russo-ucraino, i recenti sconvolgimenti climatici e il continuo proliferare delle ingiustizie sociali imposte da un capitalismo sempre più cinico.