“Dopo dieci anni credo che possiamo vedere che Papa Francesco non parla di un’altra teologia, non è teologia della ‘Pachamama’, ma quella del Concilio Vaticano II, nient’altro che le teologia del Concilio Vaticano II”. Emilce Cuda, teologa argentina, già docente presso la Pontificia università cattolica argentina e presso la St. Thomas University, negli Stati Uniti, è attualmente segretaria della Pontificia commissione per l’America Latina (Cal), oltre che componente della Pontificia accademia delle scienze sociali e della Pontificia accademia per la vita. Conosce bene Papa Francesco, ed è considerata, in quanto allieva del gesuita Juan Carlos Scannone, a sua volta docente anche di
Papa Francesco, esponente della cosiddetta “Teologia del popolo”. Ha scritto il volume “Leggere Francesco. Teologia, etica e politica”, pubblicato da Bollati Boringhieri. Non passa inosservata, in Vaticano, la presenza di una teologa donna, laica (sposata e madre di due figli), dal curriculum brillante e dalle competenze multidisciplinari, che spaziano fino alla filosofia e all’economia politica. A lei il Sir ha chiesto di interpretare “la teologia di Papa Francesco”, a dieci anni dalla sua elezione a Papa. Ricevendo, fin da subito, la categorica affermazione sul legame profondo tra il Papa e il Concilio Vaticano II.
Dunque, Francesco propone nient’altro che la teologia del Concilio? Non c’è una sua “specificità” latinoamericana, a partire dalla “Teologia del popolo” che si è sviluppata in Argentina?
Sì, direi che questa è la cosa fondamentale: Papa Francesco non è il portatore di una teologia “nuova”, “strana”. Tutti, al momento della sua elezione, si chiesero che cosa fosse questa “Teologia del popolo”, ma io credo che ora sia evidente che il Papa non è portatore di un’altra teologia. La sua prima preoccupazione, il suo impegno esistenziale è il Concilio Vaticano II.
Il contributo dell’America Latina dove lo vediamo?
Si è pensato che si trattasse di qualcosa di folcloristico, ma in realtà la Chiesa latinoamericana, fin da subito è stata quella che ha preso più sul serio il Concilio, e in modo originale. C’è stata la stagione della “Teologia della liberazione”, che è stata fraintesa, ma in realtà puntava a mettere in pratica il Vangelo. Una Teologia che ha avuto un impressionante costo di persone morte, a partire da alcuni vescovi, come mons. Romero. Molti non l’hanno conosciuta, hanno parlato per sentito dire, operato distinzioni tra “Teologia della liberazione” e “Teologia del popolo”. Papa Francesco, in realtà, eletto Papa, ha portato questo vissuto, che appunto si proponeva di mettere in pratica il Concilio. E ora si inizia a capirlo.
Spesso si afferma che il Papa parte dalla pastorale invece che dalla teologia, lei in una precedente intervista al Sir ha parlato di una “pastorale teologica”, unendo i due termini in modo nuova al posto della tradizionale “teologia pastorale”…
Sì, si tratta di considerare la parola “pastorale” come un sostantivo, invece che un aggettivo, e naturalmente il sostantivo è sopra il predicato. Per la verità, anche in Europa questo termine è usato come un sostantivo, visto che si parla di pastorale familiare, o di pastorale carceraria, e via dicendo. L’intuizione è quella di trasmettere il Vangelo a partire, appunto, dalla pastorale, cioè dal basso, dalle persone. E questo è un vero e proprio “locus teologico”. Lo si vede bene, per esempio, nel preambolo della Costituzione apostolica Praedicate evangelium, dedicata alla riforma della Curia romana. Si afferma che l’evangelizzazione avviene “con le parole e con i gesti”, viene citata esplicitamente la lavanda dei piedi, il toccare “la carne sofferente di Cristo nel popolo”. Il partire da questo gesto è un esempio di pastorale teologica. Certo, ci possono essere altri punti di partenza. Per esempio, il cardinale Ludwig Muller, nel suo ultimo libro, si mette i discussione a un livello alto, c’è una corrente teologica, in Europa, che approccia la teologia attraverso la mediazione filosofica. E’ una cosa del tutto legittima, ma cosa succede con chi non ha studiato filosofia? Il Vangelo si può riassumere con due parole: “dono” e “misericordia”. Possono essere spiegare a partire dalle parole o dai gesti, dalla filosofia o dalla pratica.
La prospettiva del Papa, però, sta trovando molte resistenze, anche e forse soprattutto dentro la Chiesa. Come se lo spiega?
Le resistenze, nella Chiesa, non sono certo una novità. La Chiesa non è un partito politico. Fin da subito la Chiesa è Pietro ed è Paolo, è unione di differenze, è diversità e ciò è ricchezza, non è male. Pensiamo alla stessa Curia romana. Il Papa è consapevole di questa realtà, è una persona aperta.
Lo stesso Francesco ha più volte parlato di un “tempo superiore allo spazio”, della necessità di avviare processi. Avverte l’esigenza che questi processi si realizzino, e che sia più visibile, nella Chiesa, la dimensione della “riforma”?
Se la Chiesa fosse un partito politico, ogni quattro anni si tirerebbero le somme e si guarderebbe se sono stati realizzati i programmi. Ma la Chiesa ha duemila anni, i cambiamenti avvengono in cinquant’anni, o sessanta, o settant’anni. Il Concilio ha, appunto, sessant’anni e ora inizia a “muoversi il gioco”. La riforma è anzitutto conversione, e la chiave interpretativa resta il Concilio Vaticano II.
La sinodalità entra in questa logica?
È il modo nuovo di dire lo stesso tema del Concilio. La Chiesa viene posta come soggetto giuridico, ci si chiede a chi spetta il discernimento, in un mondo in cui la politica non parla più di fattore comunitario, dopo gli anni del liberismo, nel momento in cui si affermano populismi dietro ai quali si nasconde spesso un vero e proprio neo-fascismo. In questo clima, la Chiesa privilegia l’ascoltare l’altro, riconoscere che l’altro può parlare e prendere decisioni. L’idea di sinodalità non si fa al di fuori della società di oggi, è una forte profezia rivolta a tutti. La sinodalità è modo di amare proprio della Chiesa, uno stile diffuso che è cosa diversa, a mio avviso dal Sinodo dei vescovi, che sarà chiamato a riflettere e a formulare proposte proprio sul tema della sinodalità.
Nonostante le chiare parole di Papa Francesco, i media parlano spesso dell’eventualità di sue dimissioni. Questo pontificato, dopo dieci anni, ha invece ancora tanto da dire?
Mi pare che il Papa sia stato chiaro, anche di recente: la rinuncia non è nella sua testa. Io ho occasione di lavorare con lui e posso assicurare che sta molto bene. Quello al ginocchio non è un problema realmente serio, la “testa” è perfetta, ricorda tutto, è rapido nelle risposte, è una persona intelligente. Credo proprio che non sia questo il momento di chiedersi chi sarà il prossimo Papa. Anche nel recente viaggio in Africa ci sono state nuove aperture, nuovi temi.
È, insomma, un Papa che continua a “sorprendere”. In che cosa, lei stessa è stata sorpresa, rispetto alle parole e ai gesti di Francesco?
Personalmente, mi ha stupito una parola data a un gruppo di studenti africani. “Non abbiamo un vita”, gli dicevano questi giovani, elencando le loro sofferenze e i grandi problemi sociali che devono affrontare. E uno di loro ha chiesto cosa si potesse fare. “Tu devi organizzarti, e fare politica, senza ideologie, senza destra o sinistra”. Il Papa ha dato una risposta fulminea, ha valorizzato la responsabilità di quel giovane. Mi sono detta: anni fa un Papa avrebbe potuto dire queste cose? In certe situazioni, chi le ha dette è finito desaparecido, o ammazzato. Ora è un Papa che le dice, che ci esorta, in un mondo così difficile, a costruire unità. E poi mi sorprende di lui un’altra cosa: il suo modo tranquillo di affrontare le cose, il suo sorriso, il fatto che concede sempre una seconda possibilità a chi lo ha “tradito”, lo fa davvero, e il fatto che spesso si mette accanto a lui persone che magari lo criticano. È la via del Vangelo.
*giornalista de “La vita del popolo”