“O Padre, che ci chiami ad ascoltare il tuo amato Figlio, nutri la nostra fede con la tua parola e purifica gli occhi del nostro spirito perché possiamo godere la visione della tua gloria.” Con questa orazione di colletta siamo introdotti alla celebrazione della seconda domenica di Quaresima, e ci viene spiegato come mai proprio in Quaresima si utilizzi il brano evangelico della Trasfigurazione, che nel rito cattolico ha una festa tutta sua nel pieno calore agostano.
Il fatto è che l’evento della Trasfigurazione, in convergenza con quanto sarà ribadito fra due domeniche nella domenica “laetare” vestita di rosa aurorale, ci indica il fine della penitenza quaresimale, ovvero imparare il punto di vista di Dio sulla realtà, così da vedere il mondo, le situazioni, gli altri e persino noi stessi come Lui li vede.
La luce della Trasfigurazione infatti non viene su Cristo dall’esterno, ma prorompe dall’interno del suo essere e si irradia all’esterno: è sempre lì, è sempre stata lì, rimarrà sempre lì, anche mentre Cristo sarà malmenato, insultato, flagellato, ucciso. Il Cristo trasfigurato è come Cristo effettivamente è, e per un istante Dio permette che anche Pietro, Giacomo e Giovanni lo vedano per come è, e al contempo comprendano, ascoltando la conversazione tra Lui, Mosè ed Elia, perché è lì, qual è il vero fine di tutto quello che di lì a poco gli sarebbe successo: il suo Esodo, la sua Pasqua.
Dunque lo sguardo della Trasfigurazione è quello che riesce a bucare la superficie, a cogliere la reale sostanza delle cose, e ne vede la luminosità, e il fine bello, fidandosi di una Parola; è uno sguardo opposto a quello della tentazione che, come scrivevamo la volta scorsa, si perde nel dettaglio, si accontenta di impressioni umorali e di proiezioni irreali e, soprattutto, resta in superficie, perché la superficialità è il clima necessario ai pensieri tentatori per svilupparsi e radicarsi in noi.
Scrive a tal proposito il caro amico don Fabio Rosini, nel suo ultimo, imperdibile libro “L’arte della buona battaglia”: “Le suggestioni e gli inganni lavorano alla grande su chi resta abitualmente nella periferia della consapevolezza. Più si va verso il proprio centro nobile, più la tentazione perde forza. Sono molti gli inganni che funzionano solo finché manteniamo il nostro baricentro interiore a livello emotivo e superficiale. […] Il pensiero ingannevole ama spesso generare reazioni senza riflessione, come l’ansia, la fretta e i vari tipi di atteggiamenti congestionati.”
Da qui, la necessità di scalare interiormente la marcia andando nel deserto: tacere per ascoltare, digiunare dai mille input sensuali e sensoriali che abitualmente ci ubriacano e ci distraggono, sopravvivere ai “no” che ci si deve imparare a dire. Se sto sempre con un occhio sulle notifiche o con dell’alcol o degli zuccheri in corpo, come posso pretendere di andare in profondità? Se il giudice di ciò che va bene o va male per me è sempre e solo la mia epidermide con i suoi fremiti, come posso sperare di non arenarmi in superficie?
C’è una Parola che deve chiamarmi fuori da tutto questo, come ha chiamato Abram fuori da una situazione fatalistica per metterlo in cammino e assegnargli un destino.
Ma poi, l’ha chiamato davvero “fuori”? Abram è stato chiamato a mettersi in viaggio mentre era già in viaggio per scelte professionali di suo padre Terach (cfr. Gen 11, 31): imparare a vedere la propria vocazione sotto la superficie di una situazione subita, corrisponde allo sguardo trasfigurato di cui parlavamo sopra.
Dubbiosi circa il valore di quanto viviamo, preferiamo abitualmente restare in superficie accontentandoci. La Parola di Dio ci chiama a fidarci, a mollare le nostre patetiche boe (piaceri, conferme, controllo) e a immergerci nella profondità della vita, dove potremo finalmente scorgere quella luce che c’è sempre, e che vuole guidarci, trasformando le nostre stagnazioni in un cammino, in un esodo, in una Pasqua di vita.