Nel nostro immaginario e anche nelle nostre espressioni verbali, quelle che scortano le nostre giornate, quando ci riferiamo alla Quaresima il riflesso immediato è… negativo… che… quaresima… che lungaggine… Immediatamente si pensa alle rinunce, alla privazione e, sotto sotto, ci si dice… tutto sommato… quaranta giorni e poi… libertà!
Correggere e reimpostare non è proprio immediato, perché ci si arresta alla concretezza quotidiana, al passo da muovere, dimenticandosi totalmente della meta, del traguardo.
Forse, se fossimo capaci di guardare noi stessi e il quotidiano da questo punto focale, la Quaresima suonerebbe in modo ben diverso, non con i toni funerei e lugubri della penitenza (male intesa) quanto con quelli gioiosi e sfolgoranti del Risorto!
Parole buone… buttate al vento oppure una proposta di rinnovamento che tocchi davvero le corde del cuore? Sempre biblicamente parlando, cioè del nostro profondo modo di pensare e di rispondere all’Altissimo.
Si tratta di compiere la teshuvah, la conversione del nostro agire, non andando contro mano e provocando disastri e incidenti, ma andando contro noi stessi quando scopriamo che non sono poche le macchie oscure che dentro di noi si agitano e hanno bisogno di essere ripulite.
Non che ne siamo capaci e quindi presa la decisione… ecco fatto… suona come una parola magica, come il “Bibbidi Bobbidi Bu” della fata che muta la zucca nello splendido cocchio.
Noi ne siamo capaci perché lo Spirito vive e pulsa dentro di noi, anche quando non lo avvertiamo e riteniamo di doverci occupare di cose ben più importanti. Capitò anche a Edith Stein, ora Patrona d’Europa, di dirsi… lasciamo stare, sarà per un’altra volta, ora ho cose ben più importanti di cui occuparmi.
Se però ci osserviamo e scegliamo solo qualche momento di solitudine, di silenzio, ci accorgiamo che siamo sommersi da un cumulo di impegni che riteniamo importanti, da un cumulo di distrazioni futili, da un cumulo di pensieri che si rivelano, forse, non pensieri.
Nel silenzio solitario emerge e si fa sentire il desiderio, questo sì è nostro e libero. Il desiderio di convertirci e di fare posto alla Parola dell’Altissimo che desidera solo irrompere in noi e trasfigurarci.
Questo desiderio non è logorio o cupidigia di possedere, tutt’altro. È tale quando si coglie nella sua nudità, nella sua impotenza e si slancia affidandosi e chiedendo aiuto a Colui che solo può soccorrerci.
Se osserviamo il nostro momento storico e ce ne lasciamo colpire, non possiamo rimanere inerti dinnanzi alla sofferenza di tante persone, proprio come noi, che vivono nel terrore delle bombe, delle torture, delle aggressioni. Prede di una fame che non pensa all’aperitivo ma solo a un pezzo di pane che possa togliere il languore e la sfinitezza: dai neonati agli anziani, ad ogni giovane che, sgomento, si guarda in giro e non trova appoggio per dirsi: La vita è un dono!
Nuotiamo in un superfluo che ci fagocita ed ottunde. Nella banalità delle proposte che si dicono artistiche e artistiche non sono perché l’arte è apertura all’infinito che conduce a bramare l’Infinito e non un carapace chiuso su se stesso stracolmo di denaro.
Una buona scossa, se guardiamo alla luce del Risorto, potremmo provarla.
Una scossa interiore che sappia comprendere lo stato d’animo e il dramma di chi si ritrova ai piedi delle macerie della propria casa e della propria famiglia sepolta dai massi.
Solo il Risorto può incidere nei famosi quaranta giorni, la gioia del percorso che ci rende trasparenti e non schiavi di nullità e di banalità.
A noi la scelta: infischiarcene oppure giocarci nella conversione, guardando a Lui.