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Papa in Sud Sudan: “Soccorriamo il Sud Sudan, non lasciamolo solo”

Pace e speranza: sono le due parole risuonate in Sud Sudan, seconda tappa del viaggio apostolico di Papa Francesco in Africa, compiuta per la prima volta insieme a "due fratelli": il primate anglicano e il moderatore della Chiesa scozzese. Nel campo di Freedom Hall, l'incontro con gli sfollati e l'omaggio alla resilienza delle donne. Nella Messa a Giuba, l'appello a deporre le armi e l'invito alla comunità internazionale a non abbandonare il Sud Sudan. "Chi si dice cristiano deve decidere da che parte stare", l'appello nella preghiera ecumenica

(Foto Vatican Media/SIR)

“Far cessare ogni conflitto, riprendere seriamente il processo di pace perché abbiano fine le violenze e la gente possa tornare a vivere in modo degno”. Come aveva fatto nella Repubblica Democratica del Congo e nel suo primo discorso rivolto alle autorità, anche in Sud Sudan Papa Francesco ha rinnovato “con tutte le sue forze” il suo accorato appello alla pace, risuonato in un Paese martoriato dalla guerra civile e che conta 5milioni di sfollati su una popolazione di 14milioni di abitanti. Non è solo, Francesco: nel pellegrinaggio ecumenico, già consegnato alla storia come una prima assoluta, lo accompagnano in ogni tappa i suoi “fratelli”, l’arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa anglicana, Justin Welby, e il moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields. Nella Freedom Hall, un campo alla periferia di Giuba, Francesco incontra una rappresentanza dei 2.300.000 sudsudanesi che lo popolano da una decina d’anni. Molti non bambini non hanno mai respirato altra aria che quella del campo, ed è soprattutto a loro che il Papa si rivolge. “Solo con la pace, la stabilità e la giustizia potranno esserci sviluppo e reintegrazione sociale”, il suo appello: “Ma

non si può più attendere: un numero enorme di bambini nati in questi anni ha conosciuto soltanto la realtà dei campi per sfollati, dimenticando l’aria di casa, perdendo il legame con la propria terra di origine, con le radici, con le tradizioni”.

“Il futuro non può essere nei campi per sfollati”, tuona Francesco: “c’è assoluto bisogno di evitare la marginalizzazione dei gruppi e la ghettizzazione degli esseri umani”. “Ma per tutti questi bisogni c’è bisogno di pace. E dell’aiuto di tanti, di tutti”, il monito nel Paese dove “perdura la più grande crisi di rifugiati del Continente, una tragedia umanitaria che può peggiorare ulteriormente nel corso dell’anno”.

“Le madri, le donne sono la chiave per trasformare il Paese”,

l’omaggio del Papa: “se riceveranno le giuste opportunità, attraverso la loro laboriosità e la loro attitudine a custodire la vita, avranno la capacità di cambiare il volto del Sud Sudan, di dargli uno sviluppo sereno e coeso!”. Dalla Freedom Hall, Francesco rinnova l’appello lanciato nella Repubblica Democratica del Congo durante l’incontro con le vittime della violenza dell’est del Paese:

“Vi prego, prego tutti gli abitanti di queste terre: la donna sia protetta, rispettata, valorizzata e onorata. Per favore: proteggere, rispettare, valorizzare e onorare ogni donna, bambina, ragazza, giovane, adulta, madre, nonna. Senza questo non ci sarà futuro”.

E’ ancora per le donne il pensiero del Papa all’Angelus, prima del congedo dal Sud Sudan: “la speranza, qui specialmente, è nel segno della donna e vorrei ringraziare e benedire in modo speciale tutte le donne del Paese”. Poi l’affidamento del Paese a Maria, regina della pace, per invocare la pace nel mondo e in tutti i Paesi in guerra, come “la martoriata Ucraina”.

 “Soccorriamo il Sud Sudan, non lasciamo sola la sua popolazione, che tanto ha sofferto e soffre!”,

l’appello al mondo intero dalla Freedom Hall. “Nel nome di Gesù, delle sue beatitudini, deponiamo le armi dell’odio e della vendetta per imbracciare la preghiera e la carità”, l’imperativo dell’omelia della Messa al mausoleo John Garang, davanti a oltre 70mila persone: “superiamo quelle antipatie e avversioni che, nel tempo, sono diventate croniche e rischiano di contrapporre le tribù e le etnie; impariamo a mettere sulle ferite il sale del perdono, che brucia ma guarisce. E, anche se il cuore sanguina per i torti ricevuti, rinunciamo una volta per tutte a rispondere al male con il male, e staremo bene dentro; accogliamoci e amiamoci con sincerità e generosità, come fa Dio con noi. Custodiamo il bene che siamo, non lasciamoci corrompere dal male!”.

“Chi si dice cristiano deve scegliere da che parte stare”,

il monito durante la preghiera ecumenica, svoltasi nello stesso luogo: “chi segue Cristo sceglie la pace, sempre; chi scatena guerra e violenza tradisce il Signore e rinnega il suo Vangelo”. “Alzare la voce contro l’ingiustizia e la prevaricazione, che schiacciano la gente e si servono della violenza per gestire gli affari all’ombra dei conflitti”, la consegna per il clero sudsudanese, esortato a stare sempre a fianco del suo popolo, fino in fondo, come Mosè.

“In nome di Dio, del Dio che insieme abbiamo pregato a Roma, del Dio mite e umile di nel quale tanta gente di questo caro Paese crede, è l’ora di dire basta, senza se e senza ma”,

l’appello del Papa alle autorità, analogo a quello lanciato nella Repubblica Democratica del Congo: “basta sangue versato, basta conflitti, basta violenze e accuse reciproche su chi le commette, basta lasciare il popolo assetato di pace. Basta distruzione, è l’ora della costruzione! Si getti alle spalle il tempo della guerra e sorga un tempo di pace!”. “Non basta chiamarsi Repubblica, occorre esserlo”.

 

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