“La morte non è mai una soluzione. Dio ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte’ (Sap 1,14)”. Questo il tema della 45ma Giornata nazionale per la vita si celebrerà domenica 5 febbraio. La Giornata rinnovi l’adesione dei cattolici al “Vangelo della vita”, l’impegno a smascherare la “cultura di morte”, la capacità di “promuovere e sostenere azioni concrete a difesa della vita, mobilitando sempre maggiori energie e risorse”, l’auspicio dei vescovi italiani. Sul tema abbiamo chiesto una riflessione a Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma.
Professore, la vita, soprattutto la vita più fragile, è sempre più minacciata da una cultura di morte che tende a presentarsi come scorciatoia di fronte a difficoltà che appaiono insormontabili…
La cultura di morte nasce dall’intreccio di numerosi fattori. Tra i più rilevanti vi è la riduzione della vita ai meccanismi biologici che la producono e la rimozione del mistero al quale sin dalla preistoria essa appartiene. Mistero che le persone percepivano attraverso il sentire di essere nello stesso tempo il proprio corpo e altro da esso, e che la loro vita non si concludeva con la morte del corpo. Questo faceva sì che la vita fosse percepita come un mistero sacro. Secondo il paleoantropologo Anati gli uomini preistorici hanno elaborato un concetto della vita assai simile a quello che oggi si ha dell’anima. Un altro fattore alla base della cultura di morte è la presenza nella nostra società di un ospite inquietante: il nichilismo che ha eliminato il fine, il senso dell’agire umano, l’unità e la sistematicità del mondo in cui l’agire si svolge, negando l’essere, con la conseguente espulsione del divino dall’orizzonte della vita umana. Infine, negando l’esistenza della verità, ha fatto sì che il mondo apparisse senza valore. L’uomo, che secondo Nietzsche è disperso in un cosmo privo di ordine, unitarietà e senso, che è privato di qualsiasi fine che non sia legato al soddisfacimento dei suoi impulsi, bisogni e desideri, non è più al centro dell’universo, né tantomeno è simile all’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, destinato a svolgere una missione salvifica per se stesso e per il mondo.
Che cosa abbiamo perduto?
Anzitutto abbiamo perduto la capacità di ascoltare la nostra anima attraverso il dialogo che essa ha con se stessa
e che, come affermava S. Agostino, avviene nella nostra coscienza. Una coscienza capace di nutrire la ricerca del significato del nostro essere nel mondo, e quindi la nostra capacità di cogliere il valore e la bellezza della nostra vita e di quella degli altri, anche della più misera e umile, di quella afflitta dalla durezza delle prove e dalla sofferenza, e di riconoscere in ognuna di esse una ierofania, una manifestazione del sacro, l’impronta del divino.
Perché si tende a stabilire il valore della vita delle persone sulla scorta dell’efficienza, fisica e mentale, e in alcune culture anche della capacità di produrre reddito, criteri senza i quali alcune esistenze varrebbero meno di altre?
Perché abitiamo una cultura che ha collocato la conoscenza dell’uomo quasi totalmente al suo esterno, ai suoi comportamenti, e alle sue prestazioni, la cui valutazione è affidata esclusivamente alla loro efficienza, in particolare nella lotta per la propria affermazione e, quindi, al successo raggiunto. Si può affermare che
la morale dei risultati è ampiamente riconosciuta, mentre quella dei principi è negletta.
L’apparire è più importante dell’essere. Si è perciò spesso dimenticato che l’incontro con Gesù avviene in particolare nelle persone fragili, sofferenti, bisognose, diverse, emarginate. Nonostante sia stato lo stesso Gesù a dircelo: “Venite, voi, i benedetti del Padre mio, ereditate il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo! Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ‘raccolto’ (secondo la traduzione della Bibbia uscita poco più di un anno fa a cura di Enzo Bianchi per Einaudi, ndr); ero nudo e mi avete coperto; mi sono ammalato e mi avete visitato; ero in prigione e siete venuti da me […] ogni volta che lo avete fatto a uno solo di questi piccoli, che sono miei fratelli, è a me che lo avete fatto” (Mt, 25, 36). Purtroppo, in questa epoca storica la visione cristiana dell’uomo e della vita appare oscurata.
Del resto, anche la facilità con cui si sopprime la vita altrui (aborto, violenze su bambini, femminicidi, risse per futili motivi) o la propria (suicidio o richiesta di eutanasia) ci dicono di una incapacità di percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca il fondamento della vita umana…
La collocazione della conoscenza dell’altro all’esterno, nei suoi comportamenti, ha provocato simmetricamente anche la collocazione della conoscenza di se stessi all’esterno e l’abbandono della via dell’interiorità. In una società iper-mediatizzata, questo ha fatto sì che l’identità delle persone sia stata sostituita dal loro simulacro. Il percepire l’altro e se stessi come simulacro impedisce di sentire la presenza del mistero sacro della vita nell’altro e in se stessi, il suo incommensurabile valore e l’abisso di orrore che la violenza spalanca nell’anima di chi la esercita. Uccidere un simulacro, come insegnano i videogiochi, non produce alcun abisso di orrore, anche perché, dopo averlo ucciso, lo stesso simulacro può ricomparire pronto a iniziare una nuova battaglia. Game is over. In questa temperie storica si è poi affermato il principio che ogni persona è la padrona esclusiva della propria vita, anche di quella che eventualmente porta in grembo.
È perciò presente il rifiuto della propria creaturalità, come se ogni persona si fosse creata da se stessa.
Oggi la tendenza sociale dominante è quella di attribuire la causa delle più gravi azioni malvage, anche di efferati omicidi, a una qualche patologia psichica dei loro autori…
Ritengo che queste interpretazioni perseguano un unico scopo: la negazione che il male sia presente nella condizione umana, specialmente nelle società permeate dall’ideologia illuminista. Negazione che può essere considerata un residuo del sogno infranto dell’illuminismo, i cui pensatori, come ricorda Habermas, perseguivano il progetto di “sviluppare una scienza obiettiva, una morale e un diritto universali e un’arte autonoma secondo le rispettive logiche interne”.
E allora, come ribadire il valore, l’unicità e la sacralità di ogni vita combattendo la “cultura dello scarto” non solo ogni prima domenica di febbraio, ma nella vita di tutti i giorni?
Un grande pastoralista, il mio compianto amico don Riccardo Tonelli, nella sua proposta di Pastorale giovanile sottolineava quanto l’educare i giovani a dire sì alla vita fosse importante nel cammino alla scoperta di Gesù, il Signore della vita. In sintonia e parallelamente a questa proposta pastorale, ho sviluppato un modello di formazione e di stile di vita: l’animazione culturale. Un modello che ha al centro l’amore alla vita, scoperto e vissuto nel proprio quotidiano, a partire dalle persone e dalle piccole cose che possono apparire banali e prive di particolari significati allo sguardo velato dall’abitudine.
La scoperta dell’unicità, della bellezza, della ricchezza e del significato presente in ogni vita umana può avvenire solo nello sviluppo dell’interiorità, nell’ascolto dell’anima attraverso la coscienza, nelle relazioni autentiche e solidali con l’altro.
Questa, scoperta per compiersi pienamente, deve avvenire unitamente a quelle della trascendenza e della fede religiosa, perché è in esse che è custodito il significato più profondo della vita umana.