“Sono convinto che Gesù mi parla per mezzo dei poveri e delle loro necessità e che i poveri mi parlano per mezzo di Gesù” scriveva nel 1989 don Enzo Boschetti. “La Casa del Giovane – aggiungeva nel suo diario – è nata non da un progetto di servizio con gli emarginati, ma da un gruppo di preghiera”. Le parole del prete pavese dichiarato venerabile nel 2019 risuonano tra apprendisti e maestri del lavoro delle comunità della Casa del giovane di Pavia fondata nel 1971, a quasi trent’anni dalla sua morte avvenuta nel 1993.
Varcato il cancello del comprensorio a ridosso di un ex complesso militare dismesso, l’anonima strada a due passi dalla stazione lascia il posto a un parco ben curato dove hanno sede i laboratori e gli uffici delle comunità di accoglienza espressione dell’Associazione privata di fedeli Casa del giovane e che rappresentano il fiore all’occhiello della diocesi di Pavia sul fronte del disagio. Nel corso di cinquant’anni decine di migliaia di persone hanno trovato tra i padiglioni colorati di questi giardini e delle altre strutture aperte in Lombardia la forza di riprendere in mano la propria vita e rimettersi in piedi. Non è un caso che secondo l’ultima Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, il 18 per cento delle oltre 21mila operazioni antidroga della Polizia condotte in Italia nel 2021 siano avvenute in Lombardia (seguita dal Lazio con il 16 per cento e dalla Campania con il 9 per cento) e che Milano figuri tra le prime cinque città europee su 32 analizzate per consumo di cocaina: qui la metà dei consumatori risulta avere fra i 16 e i 24 anni. Oggi sono 90 gli educatori che si alternano nell’assistenza a più di un centinaio di persone ospiti delle quattro aree di intervento della Fondazione don Enzo Boschetti Comunità Casa del giovane e dell’omonima cooperativa: giovani e dipendenze, minori fuori dalle famiglie di origine e stranieri non accompagnati, donne in difficoltà e mamme con bambini, salute mentale con il suo centro diurno.
“Credo che la forza di stare accanto alle persone fragili e nelle situazioni più critiche – riflette don Arturo Cristani, responsabile e formatore dell’area giovani e dipendenze – venga dalla preghiera, dalla condivisione di un orizzonte educativo in cui le relazioni diventano strumento di cambiamento, e da quella carità che fa andare avanti il mondo:
non ci si incontra per caso, e se ci diamo la possibilità di fare un cammino insieme allora anche le situazioni più irrisolvibili possono trovare una risposta”.
Classe 1968, originario di Lodi, cresciuto in oratorio ed avviato ad interessarsi ai problemi sociali dal sacerdote che seguiva il gruppo di giovani della sua parrocchia “insegnandoci a leggere i giornali alla luce del Vangelo” come ricorda oggi, don Arturo conobbe la Casa del giovane nel 1986 svolgendo qui il servizio civile e da allora non l’ha più abbandonata. Affascinato dalla dedizione di don Enzo Boschetti ai poveri e ai giovani fragili, lo affiancò negli ultimi anni di vita. “In quel periodo il problema della tossicodipendenza era in crescita – racconta – e mi interessava capire che cosa poter fare con queste persone, miei coetanei… Non mi ha mai solo interessato il problema: mi interessavano le persone. Per me poi erano gli anni delle grandi domande sul senso della vita e su cosa la faccia funzionare: tutto trovò una sintesi positiva quando incontrai don Enzo”.
A distanza di trent’anni il carisma di quel prete popolarissimo a Pavia, lo sguardo “contemplativo e profondo” con cui “riusciva a cogliere la persona al di là del suo problema e della sua storia”, sembra tessere fili invisibili tra i cammini dei giovani che cercano una ripartenza e quelli che hanno scelto questo luogo per esercitare una professione. “È anche per le proporzioni numeriche ridotte tra ospiti ed educatori – racconta l’educatore Giovanni Polgatti, 31 anni – che qui si formano legami così stretti e intensi. La difficoltà di questo lavoro e allo stesso tempo la soddisfazione più grande è riuscire a dare a questi ragazzi gli strumenti per leggere la loro storia in un modo diverso. È bellissimo rivederli dopo anni dalla fine del loro percorso: si ricordano dei litigi – sorride – ma anche di quel discorso sotto la quercia che gli ha fatto pensare che un altro modo di vivere era possibile”. Parole che dicono molto sull’orizzonte valoriale che buona parte della generazione nata a cavallo del millennio cerca oggi nel lavoro: amicizia, servizio, relazioni significative e non solo uno stipendio.