La morte di Benedetto XVI ha per la Germania e per la Baviera in particolare, una speciale intensità. Nato in un piccolo paesino, Marktl am Inn, Joseph Ratzinger crebbe, studiò, divenne sacerdote e fine teologo, poi arcivescovo e cardinale muovendosi all’interno dei confini della Repubblica federale di Germania. Poi nel 1982 si trasferì a Roma, nominato da Giovanni Paolo II Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. I legami con la sua terra, la Chiesa tedesca, e naturalmente la teologia non furono però spezzati. Il mondo si prepara ad accomiatarsi definitivamente da un Papa che ha segnato la storia della Chiesa non solo per le sue dimissioni. In Germania i giornali si sono accesi nel dibattito sulla sua eredità, raccontando soprattutto luci e ombre di un pontificato complesso. Noi abbiamo rivolto alcune domande a una voce tedesca distante da questo approccio, la professoressa Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, emerita di filosofia della religione e scienza comparata delle religioni presso la Technische Universität di Dresda, curatrice dell’edizione italiana dell’opera omnia di Romano Guardini e dell’edizione tedesca di quella di Edith Stein.
Professoressa, lei che rapporto ha avuto con Papa Benedetto XVI?
Ho avuto vari incontri con il professore, poi cardinale, poi papa Benedetto. Uno l’ho a cuore in modo particolare: l’onore inaspettato di parlare di nuova evangelizzazione ai colloqui con la sua cerchia di allievi nella residenza estiva di Castel Gandolfo nell’agosto 2011. Il tema, Atene e Gerusalemme, era dedicato al papa come “teorico della ragione”. Benedetto XVI era un po’ stanco e curvo perché reduce dalla Giornata mondiale della Gioventù di Madrid, ma ha comunque seguito con attenzione le conferenze e ha guidato la schiera di 60 allievi, mentre arginava con umorismo le loro più lunghe escursioni intellettuali e le riallacciava al tema, correggendo anche speculazioni filologiche e di altro tipo. C’era un clima lieto di amicizia, accompagnato tuttavia anche dall’atmosfera di un seminario universitario, e il Santo Padre incoraggiava i suoi “allievi” a fare dichiarazioni o a sollevare obiezioni. La cosa più impressionante – come già sperimentato più volte – era la semplicità tangibile del suo contegno. Alla domenica poi ci fu la tradizionale preghiera dell’Angelus, con un breve discorso del Papa. L’entusiasmo dei pellegrini era evidente, molto prima che il Papa apparisse; e poi lo hanno accolto con grande gioia. E io pensavo con vergogna ai media mitteleuropei, maestri nello sminuire i grandi successi, per esempio, della Giornata Mondiale della Gioventù. Ciononostante, il suo carisma silenzioso e inconfondibile, la sua profondità e la sua saggezza hanno raggiunto le persone attente. Se confronto gli incontri a partire dal primo, nel 1976, c’è un tratto comune: il suo essere sommesso, profondamente amichevole, raccolto. Nelle ultime occasioni, ancora di più, l’essere umile. E questo atteggiamento è probabilmente la cosa più sorprendente per un Papa.
Che lettura dà lei di questa umiltà?
Forse appare insolito sottolineare questa impressione con Goethe: “I più grandi uomini che ho conosciuto, che avevano il cielo e la terra liberi davanti al loro sguardo, erano umili e sapevano gradualmente ciò che dovevano valorizzare” (Artemis Gedenkausgabe 18, 515). “Gradualmente” significa conoscere una gerarchia di beni, aver sviluppato una capacità di discernimento per ciò che è importante nella molteplicità. Colpisce come questa impressione immediata del riservato-umile sia stata spesso trascurata, forse anche in modo avventato o deliberatamente stravolta. Mi riferisco agli appellativi più stupidi usati dai media, da cardinale corazzato (Panzerkardinal) a Rottweiler di Dio. Tali valutazioni errate sono state una conferma della stupidità che è cattiva, o della cattiveria che è stupida (o semplicemente disperata). Nondimeno erano il segno di chi aveva intuito che c’era qualcosa di invincibile in quest’uomo e nel suo ministero, e ha cercato di intervenire, con un istinto di distorsione e di fraintendimento, nocivo.
Si può dire che approvazione e critica hanno accompagnato il ministero di questo Papa?
Nella figura sommessa e vulnerabile di Benedetto XVI c’è stato qualcosa di saldo e inaccessibile. E i suoi viaggi all’estero, etichettati da taluni come un fallimento (penso per esempio, al viaggio in Inghilterra nel 2010, ma anche nella difficile Germania, nel 2011), si sono in realtà trasformati in significative vittorie. Un cantante rock italiano lo considerava “figo”. Può essere una parola di moda approssimativa, ma comunque coglie bene nel segno.
Se lei dovesse sintetizzare la natura di Ratzinger, come lo descriverebbe?
Citerei Goethe ancora una volta: non per una somiglianza superficiale, che non può esistere, bensì per una profondità, nella quale questi due tedeschi si possono confrontare. La citazione è tratta dal grande saggio di geologia di Goethe sulle rocce di granito, e questa immagine, secondo me, aiuta a cogliere simbolicamente qualcosa sulla natura di Joseph Ratzinger: “Si sente così solo l’uomo che vuole soltanto schiudere la sua anima ai sentimenti più antichi, primi e più profondi della verità”.
Il tema della verità è stato molto a cuore a Joseph Ratzinger, che come motto episcopale scelse l’espressione Cooperatores veritatis, collaboratori della verità, anche per segnare una continuità tra il suo compito di professore e l’incarico a guidare la diocesi di Magonza, nel 1977. Che lettura ne dà lei professoressa?
Le rispondo con una domanda, a mia volta: quando è stata l’ultima volta in cui l’esigenza della ragione è stata difesa da un Papa, in un modo così implacabile e divulgativo? Parlo di ragionevolezza della fede e di ecumenismo della ragione, capace di unire filosofie, teologie e scienze. Ha stimolato una discussione che permette di uscire dalla stagnazione dello svuotamento di senso postmoderno. Con Joseph Ratzinger la patristica si è risvegliata a una vita nuova e inaspettata. Si è sforzato di “salvare” l’antichità e i primordi della Chiesa nella nuova era, ma anche il presente dal suo autocontraddittorio scrollare le spalle nei confronti della verità. Ha incarnato una devozione del pensiero che è stata allo stesso tempo conversione alla realtà.
In Germania che eco ha avuto?
Questa facoltà di chiarire il confuso, il controverso, con fiducia nella capacità di verità si è resa visibile presto. Ida Friederike Görres (1901-1971), la voce incorruttibile degli anni successivi al ’68, in una lettera del 28 novembre 1968 a Paulus Gordan, benedettino di Beuron, scrisse dello “sconforto della Chiesa”, che si poteva osservare in tutto il Paese di fronte al rapido collasso di un certo cattolicesimo provinciale in seguito alla propaganda del ’68. Tuttavia, la Görres aggiungeva di aver trovato il suo “profeta in Israele”, un giovane professor Ratzinger a Tubinga, a lei fino ad allora sconosciuto, che poteva diventare “la coscienza teologica della Chiesa tedesca”.
E adesso?
L’eredità di Papa Benedetto è costituita dai suoi grandi scritti teologici, che a Ratisbona continuano a essere pubblicati. Questa teologia sarà ancora letta tra 500 anni! Si tratta di una sinossi dei temi più importanti dal periodo patristico al XX secolo, soprattutto nell’ambito della tensione tra fede e conoscenza. Io penso possibile che Papa Benedetto un giorno sia venerato come un Padre della Chiesa.