Il 19 aprile 2005, dopo l’elezione di Papa Benedetto, è subito nato in me il desiderio di poter incontrare, almeno una volta nella vita, il suo sguardo. Il mio desiderio si è provvidenzialmente realizzato nel 2009, quando, nominato cerimoniere vescovile, con gioia e trepidazione, ho preparato la Messa della sua visita pastorale a Brescia, in onore di Paolo VI. In seguito a quella visita, qualche mese più tardi, sorprendentemente sono stato chiamato a servire il Papa, presso l’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, come cerimoniere pontificio. Anni di grazia e di gioia che mi hanno dato il privilegio di vivere accanto a Benedetto XVI nella parte più nobile del Suo Ministero petrino, la liturgia.
Questa mattina, quando mi ha raggiunto la notizia della sua morte, ero a Cafarnao, sulla casa dell’Apostolo Pietro con alcuni sacerdoti bresciani. Lì, subito, abbiamo celebrato Messa per Lui. In queste ore, i ricordi si rincorrono e dal cuore nascono molte riflessioni. Fedele al suo nome di Battesimo, Giuseppe, in ogni suo gesto, ha incarnato l’umiltà e il nascondimento. Anche quando gli impegni lo esponevano allo sguardo di milioni di persone, pur non risparmiando energie e senza sottrarsi alle folle, sembrava volersi nascondere. La timidezza e la discrezione sono spesso state travisate come freddezza, era, invece, un uomo dal cuore caldo, un sacerdote appassionato e un pastore attento alle grandi questioni come ai piccoli particolari, dalla dolce fermezza. Appariva fragilissimo nel fisico. L’aspetto esteriore, a un primo sguardo, a tutto faceva pensare tranne che alla solidità della roccia, eppure bastava ascoltarlo predicare e annunciare la Verità e vederlo celebrare i Divini Misteri per comprendere che si era davanti a Pietro. Dalla sua fragilità traspariva evidente che Gesù è la vera Roccia sulla quale fondarsi. Nelle sue parole, limpide e rigorose, e nei suoi gesti, sobri e solenni, si percepivano solidità e affidabilità.
La Fede. È innegabile che al centro delle sue attenzioni c’era la consapevolezza di dover custodire la Fede della Chiesa e di confermare i fratelli nella vera fede. Ha segnalato, con puntualità e con tutte le sue energie, che la vera emergenza sulla quale fissare l’attenzione e dalla quale attendere il vero rinnovamento personale, ecclesiale e sociale è la fede in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Anche il suo modo di amare era riservato, mai alla ricerca della platealità e di gesti clamorosi. Intenso e puro, come è l’amore vero!
La Carità. La Carità, virtù teologale, cuore della sua prima folgorante Enciclica. Chi lo accostava era conquistato dai suoi occhi contemplativi e dolcissimi. L’ininterrotta contemplazione del Mistero di Dio ha reso i suoi occhi dolcissimi sull’uomo. Così si poteva capire che il suo era un amore non prigioniero delle logiche umane e mondane, non soggetto alle fluttuazioni dell’emotività e del consenso. Un amore generato sempre e necessariamente dalla contemplazione della Trinità, di Dio, che è Amore, e che si traduce in una vita di configurazione a Gesù, Agnello immolato, di cui fare esperienza viva nell’Eucaristia, celebrata e adorata. Eravamo sempre colpiti, sorpresi e affascinati, dalla sua capacità di vedere oltre. Anche in alcuni momenti delicati, nelle giornate più buie e cariche di tensione, che hanno caratterizzato una fase del Suo Pontificato, quando in Vaticano, nei corridoi, negli uffici e nelle relazioni, si avvertivano forti la tensione e lo sgomento, Papa Benedetto sapeva stemperare il clima con il sorriso, con lo sguardo e con poche parole, semplici e dense di fede: il suo orizzonte era sempre più ampio rispetto alle questioni opprimenti e contingenti, perché era uno sguardo che veniva dall’alto.
La Speranza. La Speranza cristiana, figlia della fede, ce l’ha insegnata nel suo alto Magistero e ce l’ha mostrata nella quotidianità dei suoi gesti. Davanti a un uomo dalla sconfinata preparazione culturale e dalla rara acutezza teologica, come Benedetto XVI, sarebbe stato naturale sentirsi sempre in imbarazzo, timorosi di sbagliare qualcosa, eppure il suo tratto elegante, gentile e di grande tenerezza rendeva facile stare alla sua presenza e il dialogo con lui assumeva la freschezza della familiarità. È l’umiltà dei grandi: non schiaccia, ma edifica l’interlocutore. È la grandezza dell’umiltà di chi riconosce che tutto ciò che ha è un dono da condividere e non una ricchezza da esibire.
Consapevolezza celebrativa. Ogni volta che entrava in Sagrestia, in San Pietro o nei viaggi apostolici, per indossare gli abiti sacri prima di una Liturgia, ero sempre raggiunto dalla sensazione che irrompesse, mite e intensa, la presenza di una realtà altra, un immediato richiamo al divino. Durante la Liturgia, poi, si avvertiva quasi fisicamente l’intensità della preghiera, l’immersione nel Mistero. Davvero si sperimentava quanto ci ha ripetutamente insegnato: nella liturgia della Chiesa il Cielo tocca la terra. E, sebbene un cerimoniere rischi di essere distratto dalle mille attenzioni che il servizio richiede, l’intensità e la consapevolezza celebrative di Benedetto XVI sapevano orientarci e riorientarci alla vera preghiera. Il 4 ottobre del 2020, ho concluso il mio servizio in Vaticano, con un colloquio di circa trenta minuti con Benedetto XVI. Uscendo dal Monastero “Mater Ecclesiae”, all’unisono con la persona che mi accompagnava, con commozione, abbiamo affermato: “un giorno, potremo dire di aver avuto la grazia di vivere accanto e di servire un santo”. Ecco quel giorno è arrivato!