Non c’è niente di peggio di mancare ad un appuntamento con un amico. Avrei dovuto essere lì, oggi, 27 dicembre, a salutare per l’ultima volta Salvatore e invece mi trovo fuori Roma. Nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Avrei dovuto essere lì, nella chiesa del Sacro Cuore dove ho passato tutti i precetti pasquali mentre ero al liceo Dante e dove questo pomeriggio una folla di parenti, amici, colleghi farà da corona alla nascita in cielo di Salvatore Mazza, vaticanista di lungo corso di Avvenire, giornalista e persona perbene, cristiano coerente e convinto, morto a 67 anni di Sla nel giorno di Santo Stefano, primo martire della Chiesa. E di martirio Salvatore ne sapeva qualcosa, in questi ultimi quattro anni ha lottato fieramente e dignitosamente contro la “bastarda”, come la chiama chi soffre di questa terribile malattia che piano piano “spegne” ogni segno vitale, aumentando progressivamente il carico di sofferenze e diminuendo l’aspettativa di vita. Eppure, proprio negli anni della malattia, per quel paradosso che appartiene per essenza alla fede cristiana, Salvatore è riuscito a “ricapitolare in Cristo tutte le cose”, come scrive San Paolo nella Lettera agli Efesini. L’amore fresco come il primo giorno per l’adorata moglie Cristina e quello per le proprie figlie, Giulia e Camilla. La passione per la sua professione, esercitata sempre con la schiena dritta e da cronista attento a cogliere i segnali nascosti nelle cose, nelle persone e nei fatti. I suoi “Slalom” pubblicati su Avvenire sono stati per tutti noi che ce ne siamo nutriti un vero e proprio balsamo, un distillato della saggezza di chi è e resta “persona”, fino alla fine, nonostante tutti i limiti e le fragilità o forse proprio grazie a quelli.
Quando nel 1991 ho cominciato a fare questo mestiere, Salvatore c’era in Sala Stampa vaticana, dove ha anche ricoperto la carica di presidente dell’Aigav. Faceva parte del gruppo di colleghi che io definisco i miei maestri, e gli sarò sempre grata per questo. Di lui rimarrà impressa in me soprattutto l’ironia e l’autoironia, qualità rarissime e patrimonio esclusivo solo dei più grandi; la capacità di ascolto di pareri anche molto diversi dai suoi, senza mai cedere al conflitto; la disponibilità ad aiutare tutti, anche i colleghi più giovani, nelle difficoltà di ogni genere; la parola parca, tagliente e appuntita ma mai aggressiva, da romano d’adozione e napoletano per passione quale era e si definiva. La coerenza tra fede e vita, mai ostentata ma testimoniata con i fatti. Fino alla fine, fino all’’ultimo giorno. Nell’ultima rubrica di “Su questa pietra”, pubblicata la Vigilia di Natale, Salvatore descriveva da par suo l’atmosfera tetra di questo Natale di guerra. E poi ricordava quel presepe “alternativo”, il primo in cui il papà, di cui era stato sempre l’assistente, gli aveva lasciato “in toto” l’’allestimento: “Era il 1967, c’era stata la Guerra dei sei giorni, che aveva infiammato il Medio Oriente, e mi aveva molto colpito, come mi colpivano le notizie che quasi ogni giorno arrivavano sulla guerra in Vietnam. Così nel presepe, invece che i pastori, quell’anno ci misi i miei soldatini, con tanto di carri armati e un cannone puntato dritto contro la grotta, con una lucina rossa e intermittente nella canna, che veramente sembrava sparasse. Gli incubi di un ragazzino avevano preso forma e – per la teologia molto arruffata di un dodicenne – credevo che, se ogni Natale Gesù Bambino nasceva ovunque, tanto più sarebbe nato nei luoghi di guerra”.
Mi commuove sempre, Salvatore, questa tua lucidità da cronista, profetica e priva di ogni retorica. È quello che più si avvicina alla mia idea di giornalismo, in particolare di agenzia. Sapevi leggere l’attualità più di ogni altro, e soprattutto avevi la capacità di scorgervi un filo di speranza anche negli scenari più cupi. Lo hai dimostrato con il modo di esercitare il tuo mestiere e di affrontare la tua malattia. Cristina, Giulia e Camilla, avete avuto – anzi avete – un marito e un padre come ce ne sono pochi. Le condoglianze mie e di tutto il SIR sono anzitutto per voi. Ma mi fermo qui, altrimenti Salvatore mi taccerebbe di retorica. “Anche questo è un tempo propizio di salvezza”, la chiosa della tua ultima rubrica. Da credenti, sappiamo che non c’è fede senza speranza. Da oggi, però, siamo un po’ più soli.