(da Torino) Valdocco, il luogo dove tutto è cominciato. Essere ospiti dei Salesiani a Torino, come è capitato a 30 giornalisti accreditati presso la Santa Sede e la Sala Stampa estera – grazie all’iniziativa di don Giuseppe Costa, segretario del rettor maggiore e co-portavoce della Congregazione – significa imparare e constatare con mano che la santità, oltre che una storia, possiede anche una geografia. E quella di questo quartiere a ridosso di Porta Palazzo ci restituisce una fotografia plastica dei “santi sociali” dell’Ottocento: in poche centinaia di metri, infatti, si trovano la “casa” di Don Bosco, il Rifugio della Marchesa di Barolo e il Cottolengo, divenute anima della città savoiarda e avamposto dell’attenzione agli ultimi, ai diseredati, agli invisibili, ai ragazzi e alle ragazze ai quali viene data accoglienza per scoprire che nella vita c’è sempre la possibilità di ripartire e di avere una seconda opportunità.
“Educare alla fede e preparare alla vita”,
come ci ha spiegato il Rettor Maggiore, don Àngel Fernández Artime, conversando con noi, è uno dei motti della pedagogia salesiana, basata sul “sistema preventivo” creato da don Giovanni Bosco dopo l’incontro con i ragazzi di Porta Palazzo, primo nucleo di quella Società di San Francesco di Sales che nel 1854 verrà riconosciuta come una famiglia religiosa che oggi conta 14mila salesiani in 134 nazioni e vanta ogni anno circa 450 novizi che emettono la prima professione, pari ad una media di un giovane salesiano in formazione ogni 4,2 figli di Don Bosco.
La casa e il sogno. “Casa”: è la parola ricorrente di questi giorni alla scoperta delle meraviglie compiute da chi, come Giovannino, ha perso a due anni il suo papà ed è diventato “padre” per migliaia di giovani in ogni parte del mondo. “Casa” è il nome del Museo dedicato a Don Bosco, che trasforma i luoghi della vita del primo oratorio e della comunità salesiana di Valdocco delle origini in un percorso espositivo che vuole illustrare non solo la vita di san Giovanni Bosco nei luoghi originari dell’esperienza spirituale salesiana, ma anche la vita della comunità da lui generata. “Casa” è anche Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo don Bosco, un piccolo borgo contadino che la neve caduta copiosamente rende quasi fiabesco e al tempo stesso ancora più vero. Qui ai Becchi la stalla che mamma Margherita ha riadattato a dimora per sé e per i suoi due figli dopo la precoce morte del marito è una testimonianza di come essere famiglia voglia dire condividere anche quel poco che si ha con ogni viandante. Come il piatto di ministra che mamma Margherita insegnava a Giovannino a mettere sul davanzale esterno della finestra, in modo che chi avesse bisogno di un piatto caldo potesse accedervi senza vergognarsi. È in questa casa che, a nove anni, Giovannino fece il sogno che poi segnò tutta la sua vita, anche se per decifrarne pienamente il significato avrebbe poi dovuto viverla, con tutti i sacrifici, le sofferenze e le umiliazioni annesse, prezzo da pagare per compiere miracoli.
I piccoli gesti. Si educa alla carità per osmosi, con la semplicità dei gesti. E certi gesti sono già di per sé stessi presagi di fede, come quello dell’inginocchiarsi davanti ad una balaustra. Proprio in questa postura Giovannino ha ricevuto la prima Comunione, e come lui altri futuri santi: Giuseppe Cafasso, Domenico Savio e il beato Giuseppe Allamano. Nella piccola chiesa parrocchiale di Sant’Andrea spicca il battistero dove don Bosco è stato battezzato. La stessa balaustra la ritroviamo nell’architettura sacra della basilica di Santa Maria Ausiliatrice a Valdocco, dove riposa il corpo di Don Bosco: qui si inginocchiano da generazioni i giovani in visita da tutto il mondo alla scoperta del carisma salesiano. Un gesto di devozione che, per intensità e frequenza, “sorpassa” persino i solitamente più gettonati selfie.
Come su una nave. Appena si arriva a Colle Don Bosco, l’omonima basilica si staglia in tutto il suo splendore su un panorama mozzafiato, reso ancora più vivido da un cielo terso e dalla spessa coltre di neve con le Alpi a fare da cornice. L’intera struttura richiama vagamente la forma di piazza San Pietro, anche se manca la sontuosità del colonnato. L’immagine suggerita, come quella berniniana, è l’abbraccio: l’ampia scalinata che immette nel Santuario ha una forma ad imbuto, quasi a voler invitare quante più persone possibili all’interno, dove ci si trova “faccia a faccia” con San Giovanni Bosco e il suo itinerario spirituale, cominciato proprio da quello che Giovanni Paolo II, nel 1988, definì “il luogo in cui ha origine una storia di santità”. Nella chiesa superiore, la sensazione immediata è quella di trovarsi all’interno di una poderosa nave antica: il rivestimento ligneo delle pareti che culminano con la cupola converge verso il grande Cristo Risorto con le braccia aperte che indicano il cielo, ma aprono anche alla dimensione missionaria raffigurata nel grande dipinto sull’entrata della basilica, che sembra riproporre idealmente l’ultimo dei sogni missionari di don Bosco: “Disse la donzella: ‘Ora tira una sola linea da una estremità all’altra, da Pechino a Santiago, fanne un centro nel mezzo dell’Africa e avrai un’idea esatta di quanto debbano fare i salesiani’”. “Dai tempi di don Bosco ad oggi è cambiato moltissimo, ma non è cambiato nulla”, sintetizza il Rettor Maggiore: da Valdocco, dove tutto è cominciato, al mondo.