“Siamo presbiteri provenienti dall’Africa, dall’Europa, dall’Asia e dall’America. Ci troviamo in Italia, a servizio delle diocesi, da almeno un anno”. Comincia così la lettera aperta scritta da un numeroso gruppo di preti che dal 17 al 21 ottobre scorsi hanno seguito il corso di aggiornamento per operatori pastorali stranieri che lavorano in Italia. Il corso si è tenuto presso il Cum, Centro unitario per la formazione missionaria di Verona. In seguito a quella esperienza, hanno voluto comunicare alcune loro riflessioni, dopo essere stati – scrivono nella missiva affidata alle riviste Noticum e Popoli e Missioni – “coinvolti in una dinamica di dialogo sinodale”.
“In Italia una Chiesa viva”. “La nostra prima parola è di ringraziamento per le Chiese che ci hanno accolto e ci permettono di stare qui. Per quando riguarda il nostro inserimento nelle comunità parrocchiali, soprattutto all’inizio, abbiamo notato una diffidenza e talvolta anche freddezza da parte della gente. Tuttavia dobbiamo riconoscere e ringraziare chi si è dimostrato aperto verso noi preti stranieri e paziente nell’accettare la nostra difficoltà con la lingua”. La testimonianza prosegue così: “in realtà, ciò che ci motiva è il desiderio di condividere con il popolo e con la Chiesa in Italia la ricchezza culturale ed ecclesiale dei Paesi e delle comunità cristiane che ci inviano, con gentilezza e senza pretese, ad accogliere una nuova cultura e ad inserirci in una tradizione cristiana che sentiamo ancora profondamente radicata”.
Impegno, generosità, formazione… “Stiamo scoprendo tante ricchezze nella Chiesa che è in Italia: la sua storia plurimillenaria, l’organizzazione, anche economica, le strutture, come gli oratori, la presenza di cristiani convinti, la generosità del loro impegno, la solidarietà, la serietà dei cammini di formazione, specie del clero, la varietà di espressioni di pietà popolare e di forme di preghiera”. D’altra parte,
nelle Chiese “che ci accolgono riscontriamo anche dei limiti”
come “l’invecchiamento dei partecipanti, la poca presenza dei giovani, un certo senso di superiorità, una certa stanchezza e monotonia, si vedano ad esempio i canti, il clero anziano che tende a conservare ed ha paura delle novità, o ad accomodarsi, senza più slancio o coraggio nell’affrontare temi decisivi”.
“Rigidità, difficoltà di dialogo, diffidenza”. Una lettura piuttosto netta della Chiesa in Italia… E il loro inserimento è spesso segnato da “difficoltà”, perché “incontriamo rigidità, difficoltà di dialogo, diffidenza davanti a nuove proposte. Ci pesa in alcuni casi la mancanza di comunicazione e di dialogo coi confratelli o con lo stesso vescovo. La nostra presenza viene vista da alcuni come destabilizzante, si creano rivalità, si teme la diversità. Abbiamo anche notato la necessità di maggiore formazione, specie per i laici, che potrebbe rilanciare le comunità. Ad esempio, la ristrutturazione del territorio in Unità pastorali risulterebbe molto più efficace se fosse adeguatamente preparata da parte di tutti”. Non s’intende, affermano i firmatari, far prevalere un giudizio negativo, perché “siamo contenti di essere qui e soprattutto siamo pronti a donare con gioia quelle che riteniamo essere le ricchezze che portiamo con noi: la nostra persona donata al Signore e agli altri, l’entusiasmo della nostra giovane età e della giovinezza delle Chiese da cui proveniamo. Esse ci hanno fatto provare l’entusiasmo nel vivere la fede, nell’amare la Chiesa, nell’annunciare con coraggio il Vangelo”.
Dialogo a tutti i livelli. Poco oltre nella lettera si legge: “sentiamo di avere sensibilità nell’ascolto di tutti, cominciando dai piccoli e dai poveri: possiamo aiutare nell’accoglienza di chi viene da altri continenti in cerca di migliori condizioni di vita, stiamo diventando esperti di interculturalità, così importante per la nostra società. Abbiamo felicemente scoperto […] tanta ricchezza umana tra di noi” e anche
“differenze che rendono bene la bellezza poliedrica della Chiesa”
come “la diversità dei riti liturgici (quattro riti oltre a quello latino), la presenza tra di noi di presbiteri sposati di rito orientale, che ci stimola a riscoprire la bellezza tanto della famiglia come della scelta celibe; diversità queste che favoriscono il dialogo ecumenico tra i cristiani e ci rendono tutti più aperti”. Il messaggio si chiude con queste parole: “mentre offriamo il nostro servizio alla Chiesa italiana, ci sentiamo di augurare che la nostra presenza favorisca l’incontro e il dialogo a tutti i livelli: nelle comunità cristiane, nel presbiterio, nella diocesi, il necessario dialogo tra le Chiese, quelle che ci hanno inviato e quelle che ci accolgono, così da sentirci tutti Chiesa missionaria in cammino. Saremo allora segno di un’umanità riconciliata e unita, dove tutti i figli e le figlie di Dio riconoscono di avere un’unica dignità che non dipende dai tratti somatici, dal colore della pelle o dal Paese di provenienza”.