C’è un aspetto che immediatamente colpisce nel leggere del viaggio in Bahrain di Papa Francesco per accoglierne continuità ed effetti. Certo se l’intervento al Forum interreligioso sugli sviluppi del dialogo Oriente-Occidente ha costituito un punto alto della visita – del resto ne era l’obiettivo principale sin dal memento dell’annunci – è l’ulteriore apporto alla “metodologia del dialogo” che si coglie per originalità e concretezza. Si tratta di una linea di continuità e di progressivo sviluppo della dottrina della fraternità declinata da Francesco destinata a caratterizzare l’idea stessa di dialogo, posto ancora una volta quale unico strumento alternativo alla contrapposizione, allo scontro armato e finanche in grado di prevenire ed escludere il conflitto.
Non possiamo infatti dimenticare come Papa Francesco consideri e legga il conflitto quale parte del vivere, della relazione e ancora di più lo veda come strumento di crescita e per far crescere. È per questo che al dialogo non è chiesto semplicemente di affrontare il conflitto, ma di scoprirne la radice per proporre soluzioni, valutando gli elementi da cui prende corpo e consistenza. Dialogare, cioè, per introdurre correttivi e possibili tecniche di mediazione, ben sapendo che non è possibile ignorare il conflitto; anzi un tale atteggiamento può significare prolungarlo nel tempo, affidarlo al caso e ancora di più allontanare le parti dalla trattativa. E questo ad ogni livello: dalle persone alle comunità, dai popoli agli Stati.
Dialogo, dunque, come metodo a cui affidare la lettura, l’analisi e le possibili strade del negoziato. In sostanza uno strumento per fornire prospettive di soluzione, tenuto conto che molto spesso l’impossibilità di porre fine ai conflitti è pari alla mancata volontà di affrontarne le cause, pur conoscendole. Per Francesco, invece, l’essere consapevoli di quanto il conflitto non possa essere escluso, né ignorato si muove di pari passo con la decisione di procedere, con sano realismo, a renderne innocue le cause prossime e remote, anche per evitare di cronicizzare lo scontro.
Negli interventi in Bahrain, da quelli dal sapore politico-diplomatico a quelli più raccolti nella dimensione ecclesiale, non sono mancati gli accenni alle diverse tipologie di conflitti, ad iniziare dalle guerre combattute che hanno portato il Papa a far riferimento al conflitto nello Yemen davanti ad un establishment che quel conflitto sostiene nei mezzi e nelle forme; o ancora a conflitti ormai prolungati nel tempo, che tanti esempi hanno proprio nella regione mediorientale. Francesco non ha avuto dubbi nel richiamare coscienza e azione come soli mezzi per superare il rifiuto di dialogo, chiedendo un responsabile atteggiamento interiore ed esteriore capace di manifestarsi in uno scambio di volontà per chiudere i conflitti, rimuovendone l’interesse che li motiva e sorregge.
Ma, come spinta ulteriore, lo ha fatto arricchendo la “metodologia del dialogo”, nella quale ha inserito un altro elemento: superare la categoria del nemico, di ogni nemico. È quanto espresso nell’omelia al Bahrain National Stadium, sostenendo che di fronte alla violenza – da quella delle armi a quella del linguaggio e delle azioni – da cui scaturiscono conflitti e guerre la “semplice reazione umana ci inchioda all’ ‘occhio per occhio, dente per dente’, ma ciò significa farsi giustizia con le stesse armi del male ricevuto”. Non è la resa di fronte all’aggressore, ma piuttosto l’appello a non “sognare irenicamente un mondo animato dalla fraternità, ma di impegnarci a partire da noi stessi, cominciando a vivere concretamente e coraggiosamente la fraternità universale, perseverando nel bene anche quando riceviamo il male, spezzando la spirale della vendetta, disarmando la violenza, smilitarizzando il cuore”. Tutto nasce dal cuore dell’uomo, e un cuore purificato – smilitarizzato – può certamente operare per la riconciliazione e avviare un nuovo cammino, per costruire una pace effettiva e non solo quella delle armi.
Approccio ideale, privo di fondamento, lontano dalla realpolitik? Quello di Francesco appare come un appello alla ragione, perché sorge e ha fondamento nella constatazione che i conflitti odierni non trovano soluzione nella dialettica vinto-vincitore, ma rispondono alla logica del nemico, che significa supremazia, annientamento, occupazione e modificazione etnica di territori, mancato rispetto per i non combattenti, commercio delle armi, giustizia sommaria…. Per questo vengono in qualche modo assorbiti dall’informazione o da questa sopiti, finanche dimenticati.
La logica del nemico produce il rifiuto di sedersi intorno ad un tavolo, quasi considerando il negoziato ormai sinonimo di debolezza, o ancora di più aumenta l’immobilismo di fronte al perpetuarsi di ingiustizie o di situazioni di fatto. E proprio il considerarsi nemici che annulla ogni gesto capace di rispondere alla necessità di porre fine a combattimenti e a sofferenze è sempre più inutili rispetto alla possibile prevalenza di una delle parti, devastanti per gli effetti sui più deboli, quasi sempre ignari e increduli. E così anche gli appelli, se pur autorevoli e ripetuti, restano nel vuoto, appoggiati alla sola illusione che qualcuno alla fine prevarrà, dimenticando che anche la vittoria delle armi non può rimuove le cause del conflitto.
Per il credente, poi, tutto questo ha il sapore di una scelta, anche di fede, sapendo come ha detto il Papa che “sperimentiamo come, nonostante tanti sforzi generosi, non sempre riceviamo il bene che ci aspettiamo e, anzi, talvolta incomprensibilmente subiamo del male”. Ma è proprio questo che impone di andare avanti, con umiltà e coraggio, perché chiamati a pensare la fratellanza come frutto dell’amore che domanda di restare fedeli, nonostante tutto, “anche dinanzi al male e al nemico”.
Dal Bahrein sappiamo che per chiudere i conflitti, ad ogni livello, ai frutti del dialogo si deve unire la convinzione (che non è semplice auspicio) di superare la categoria del nemico. È questo il nuovo tassello collocato da Papa Francesco nel grande mosaico della tecnica di costruzione della pace.