La Chiesa che verrà. Don Matteo: “Imparare lo stile dell’intercessione”

“Un infaticabile intercessore”. Così don Armando Matteo definisce il cardinale Martini, della cui lezione, a dieci anni dalla morte, ripercorre l’attualità. “Non è possibile desiderare di lasciare a chi verrà dopo di noi, nelle terre del benessere, l’eredità di una chiesa della stanchezza e della stanchezza di una Chiesa”

Foto Calvarese/SIR

“Che cosa puoi fare tu per la Chiesa che verrà?”. Parte da questo interrogativo, esigente per ciascuno di noi, credenti e non credenti, e contenuto nell’ultima intervista rilasciata da Carlo Maria Martini al Corriere della Sera, pochi giorni prima di morire, l’ultimo libro di don Armando Matteo, “La Chiesa che verrà” (Edizioni San Paolo), che inizia con una commovente lettera intrisa di riconoscenza da parte dell’autore verso colui che definisce

“un infaticabile intercessore”,

che “ha preso per mano gli uomini e le donne seriamente pensosi, credenti e non credenti che fossero, e ha permesso loro di parlarsi, di incontrarsi, di fare insieme un pezzo di strada. L’uno con l’altro. Mai l’uno senza l’altro”. Dieci anni dopo quello che è considerato il “testamento spirituale” dell’arcivescovo di Milano, don Matteo considera ancora attuale e sanamente provocatoria la denuncia di Martini, secondo il quale la Chiesa, già da allora, era in ritardo di 200 anni rispetto all’andamento del mondo.

“Non è possibile desiderare di lasciare a chi verrà dopo di noi, nelle terre del benessere, l’eredità di una chiesa della stanchezza e della stanchezza di una Chiesa”,

scrive l’autore del volume sulla scorta di Martini: “Oggi – attualizza don Matteo – gli uomini di Chiesa non possiedono alcuna autorità morale presso le nuove generazioni. La terribile vicenda della pedofilia del clero e gli scandali finanziari che spesso coinvolgono anche esponenti importanti della gerarchia hanno gettato un tale discredito che richiederà diverse generazioni prima di venire cancellato”. Il punto in questione, quindi, “non è la morale, ma “il senso di un’istituzione come quella della Chiesa”, la cui crisi viene riassunta così da Martini:

“non riusciamo più a fare cristiani”.

In un tempo come il nostro, in cui domina quella che Papa Francesco definisce “egolatria”, secondo don Matteo “è tempo di riaprire oggi la questione decisiva dell’umano: la questione della sua destinazione. La nostra vita punta sempre alla vita d’altri. Noi siamo fatti per gli altri. Sono gli altri la meta del nostro cammino”: di qui la necessità di interrogarsi su “come riattivare il carattere generazionale e generativo dell’umano nel tempo del godimento, prima che sia troppo tardi”. Che fare, allora? Da dove partire per non arrendersi ad una situazione di quasi totale stallo, a dieci anni non solo dalla morte di Martini ma anche dall’arrivo di Papa Francesco, che esorta continuamente a considerare quella attuale non un’epoca di cambiamento ma “un cambiamento d’epoca”? La risposta sta proprio nell’invito di Martini all’intercessione. “I pochi o molti che vogliono lavorare per la Chiesa che verrà – sostiene l’autore del volume – devono assumersi il compito di mettersi a fianco degli adulti persi nei loro miti e riti giovanilistici e dei tanti cristiani e pastori bloccati nell’illusione che il nostro sia un semplice mondo che cambia e che tutto o quasi tornerà come sempre”. Per don Matteo, in altre parole,

“è tempo di assumere responsabilmente lo stile dell’intercessione,

del camminare in mezzo, del tendere una mano a chi sta alla destra e a chi sta alla sinistra, provando a convincere entrambi ad uscire dalla tentazione di esaltare unicamente il proprio piccolo universo mentale e di attendere la resa dell’altro alle proprie ragioni”.

“Intercedere – come spiega il cardinale Martini – non vuol dire semplicemente ‘pregare per qualcuno’, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa ‘fare un passo in mezzo’, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione. Intercessione vuol dire allora, mettersi là dove il conflitto ha luogo, mettersi tra le due parti in conflitto. Si tratta di mettersi in mezzo. Non è neppure semplicemente assumere la funzione di arbitro o di mediatore, cercando di convincere uno dei due che lui ha torto e che deve cedere, oppure invitando tutti e due a farsi qualche concessione reciproca, a giungere a un compromesso. Intercedere è stare lì, senza muoversi, senza scampo, cercando di mettere la mano sulla spalla di entrambi e accettando il rischio di questa posizione”.

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