Quella di mercoledì scorso è stata, a nostro avviso, la catechesi finora più bella e ricca di tutto l’itinerario che il Papa ha deciso di inaugurare da qualche settimana sul discernimento, toccando un punto troppo spesso sottaciuto in trattazioni che pretendono di essere spirituali, ma sono solo in realtà idealistiche, moralistiche, spiritualistiche.
La ricchezza di spunti ci costringe a una scelta tematica per il presente articolo, e allora vogliamo partire da una citazione di Thomas Green fatta dal Santo Padre, con cui ha ricordato che “l’ostacolo più grande al vero discernimento (e ad una vera crescita nella preghiera) non è la natura intangibile di Dio, ma il fatto che non conosciamo sufficientemente noi stessi, e non vogliamo nemmeno conoscerci per come siamo veramente. Quasi tutti noi ci nascondiamo dietro a una maschera, non solo di fronte agli altri, ma anche quando ci guardiamo allo specchio”.
In altri termini, l’incontro con Dio per molti non avviene, perché siamo noi a non presentarci all’appuntamento con Lui.
Se guardassimo con umiltà a noi stessi e alla nostra pretesa di raggiungere la dimensione spirituale senza passare per quella psichica, esistenziale, ci renderemmo conto di quanto siamo ridicoli: ritenere che, nella relazione con Dio, siamo noi ad avere l’iniziativa, che siamo noi quelli da cui dipende la relazione, e che dunque se ancora non sperimentiamo la consolazione è perché non abbiamo raggiunto Dio. Raggiungere Dio… come se fosse su una vetta, distante e impotente (e impaziente).
Invece è proprio vero il contrario, e cioè che Dio vuole senz’altro comunicare con noi molto di più di quanto noi lo vogliamo, perché Lui “ci ha amati per primo”, e la sua volontà è sicuramente più forte della nostra, e che sempre “el nos primerea”, come diceva sant’Ignazio di Loyola: Lui arriva sempre per primo, è Lui che ci insegue, che ci raggiunge, che si fa uno di noi.
Lui all’appuntamento c’è, arriva sempre in orario – nel kairos.
Siamo noi che non ci siamo, che non ci arriviamo, persi come siamo nelle nostre idealità, nella pretesa megalomaniaca di instaurare un rapporto con un dio che in realtà è il nostro super-io, e lo è perché, avendo deciso di non contattare e conoscere noi stessi, ogni fantasma e stratagemma delle parti in ombra della nostra psiche riesce a fregarci, puntualmente, contrabbandandosi per Altro. Ed ecco allora il nostro continuo proiettare su Dio le nostre paure, le nostre pretese, i nostri cipigli, ritenendo che siano i suoi, e poi dai a provare a placarlo, a ingraziarcelo, a evitarlo, a emularlo… un orrido monologo della psiche ignara di se stessa, che non si è mai permessa di gustare la vera dolcezza del Dio vero, perché non ha mai ammesso che tutta quella bruttezza era sua, e non di Dio, e che no, non sa volare fino a Lui, se Lui non le dà la grazia di conoscersi e di amarsi (oltre che di amarLo): “Conoscere sé stessi non è difficile, ma è faticoso: implica un paziente lavoro di scavo interiore. Richiede la capacità di fermarsi, di ‘disattivare il pilota automatico’, per acquistare consapevolezza sul nostro modo di fare, sui sentimenti che ci abitano, sui pensieri ricorrenti che ci condizionano, e spesso a nostra insaputa”.
Questo lavoro faticoso e necessario è il primo grande atto di fede che una persona può fare: fidarsi che, guardandosi dentro, e accettando di immergersi nel suo profondo ignoto che la inquieta, lì troverà già la luce pasquale del Signore, che la attende amorevolmente dove lei stessa non pensava di potersi o doversi guardare.
Il Signore ci attende nella “mangiatoia” del nostro profondo pulsionale e viscerale, lì dove si cibano le bestie dei nostri primordi. Lì esprime la sua amorevole e incarnatoria condiscendenza: possiamo conoscerci, possiamo guardarci dentro senza paura, perché Lui è già lì.
Occorre diffidare da chi si dice credente ma non vuole scavarsi dentro: costui (o costei) ancora non ha sperimentato la Pasqua, e lo dimostra il fatto che ha ancora paura del buio.