Mercoledì scorso il Santo Padre ha ripreso le meditazioni sul tema del discernimento, arrivando, è proprio il caso di dirlo, al cuore della questione con la questione del cuore.
Ci ha ricordato che il discernimento non è una tecnica, ma il risultato affettivo della familiarità con Dio attraverso la preghiera: “Due sposi che hanno vissuto insieme tanto tempo volendosi bene finiscono per assomigliarsi. Qualcosa di simile si può dire della preghiera affettiva: in modo graduale ma efficace ci rende sempre più capaci di riconoscere ciò che conta per connaturalità, come qualcosa che sgorga dal profondo del nostro essere”.
Spesso abbiamo ricordato che discernere significa ascoltare come risuona il cuore nell’incontro con la vita; ma per arrivare a permettersi di ascoltare sinceramente il proprio cuore, in piena trasparenza, occorre superare quella diffidenza istintiva, effetto del peccato originale, per cui non siamo immediatamente pronti a fare verità, a dirci la verità a ogni costo: “Alcuni temono che prendere sul serio la sua proposta, quello che Gesù ci propone, significhi rovinarsi la vita, mortificare i nostri desideri, le nostre aspirazioni più forti. Questi pensieri fanno talvolta capolino dentro di noi: che Dio ci chieda troppo, abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, che non ci voglia davvero bene”.
Sento magari che il corso attuale della mia vita mi amareggia, ma non lo ammetto, mi dico che va tutto bene, anzi benone, perché temo che mettermi in discussione potrebbe espormi, farmi perdere quanto conta per me; oppure, presagisco che accogliere una determinata possibilità mi darebbe gioia, ma esito, perché ho paura di giocarmi, di compromettermi.
In entrambi i casi, e in molti altri simili, nella gamma delle speranze e delle incertezze umane, il problema è quella mancanza di fiducia in Dio di cui ha parlato Papa Francesco nella catechesi, mancanza di fiducia che riduce la vita a una roulette russa: “E se poi mi sbaglio?”, “E se non sarò felice?”, “E se fosse tutto un inganno?”. Domande lecite, a cui però poi non si ha la forza e la voglia di rispondere, perché si ha paura di tematizzarle con Dio, si teme la sua volontà come qualcosa di espropriante, schiacciante, insensibile alla nostra specificità – una concezione davvero demoniaca del rapporto di Dio con noi, come ha ricordato il Papa!
Frequentare di più Dio è l’unica soluzione: scoprire, in una preghiera semplice, affettiva, non formale, il suo stile, la sua “leggerezza”, e, soprattutto, i sentimenti che accompagnano i pensieri da Lui ispirati: consolazione, pace, speranza, gioia.
La gioia, unico vero indizio della vera presenza di Dio. Tutto il resto può benissimo essere un prodotto del nostro super-io o persino della tentazione; solo il Dio vero può instillare in noi il sentimento della vera gioia, elegante, discreta, aurorale, pacificatrice (con noi stessi e i nostri timori). Seguire interiormente la pista di questa gioia ci farà scoprire che Dio non toglie, non inchioda, non condanna, non pretende, non preme. Quello a cui Dio ci chiama, è sempre per un di più di questa stessa gioia, che sarà capace anche di illuminare e rendere accettabili croci e sacrifici, quando dovessero presentarsi. Ricordiamoci che sulle spalle del Figlio la croce l’ha messa il mondo, non il Padre.
Rispetto a chi vorrebbe ridurre il discernimento a una tecnica replicabile in laboratorio, autonoma da qualsivoglia relazione con Dio, il Papa ha ribadito invece che solo seguendo nella preghiera la pista di questa gioia, di questa “luce gentile” che ci guida al bene, possiamo discernere la vera volontà di Dio per noi, che è sempre una volontà d’amore.