“Siamo partite con un grande dolore nel cuore, lasciando lì i nostri poveri”. Suor Agnesita parla al Sir da San José, capitale della Costa Rica. È una delle diciotto missionarie della Carità, le “suore di Madre Teresa”, che sono state espulse dal Nicaragua, per decisione del regime guidato dal presidente Daniel Ortega, e dalla moglie, la vice-presidente Rosario Murillo. Una scelta che ha indignato il mondo, e dato la misura della brutalità e dell’ottusità dell’attuale Governo nicaraguense, che mese dopo mese sta spegnendo qualsiasi voce libera e perseguitando, in particolare, la Chiesa cattolica. Una tensione che, per citare gli episodi più rilevanti degli ultimi mesi, ha prodotto l’espulsione del nunzio apostolico, mons. Waldemar Stanislaw Sommertag, e i costanti controlli e minacce a mons. Rolando José Álvarez, vescovo di Matagalpa e amministratore apostolico di Estelí. Ma il gesto contro le missionarie della Carità è stato vissuto come una provocazione del tutto gratuita e insensata. Una scelta paradossale se si pensa che lo stesso Ortega, allora giovane presidente sandinista, nel 1986, aveva incontrato personalmente santa Teresa di Calcutta, nel Paese per il Congresso eucaristico. E si era impegnato personalmente a facilitare l’arrivo nel Paese delle missionarie della Carità Non solo. La vicepresidente Rosario Murillo, in occasione della canonizzazione di Madre Teresa, avvenuta nel 2016, aveva espresso la propria gioia e si era congratulata con le suore.
“Il nostro pensiero, servire i poveri”. Alle diciotto religiose non è rimasto altro che raccogliere quel poco che avevano, e attraversare la frontiera con il Costa Rica, cosa che peraltro stanno facendo continuamente migliaia di nicaraguensi. Nel Paese confinante sono state inizialmente accolte dal vescovo di Tilarán-Liberia, mons. Manuel Eugenio Salazar Mora. Quindi, hanno trovato sistemazione nella casa delle missionarie della Carità a San José, dove abbiamo raggiunto telefonicamente suor Agnesita, che preferisce dare solo il suo nome di battesimo. “Il nostro dolore – afferma – è bilanciato dall’accoglienza che abbiamo trovato qui, la Chiesa della Costa Rica ci ha aperto le braccia. Che sia fatta la volontà di Dio”. In Nicaragua, le religiose erano presenti in tre strutture, due a Managua e una a Granada: “A Managua, in una prima struttura, avevamo una casa di riposo per anziani, un asilo, seguivamo i poveri assicurando loro un pasto base. La seconda struttura era invece dedicata alla vita contemplativa. A Granada si occupavamo di ragazze adolescenti a rischio sociale, e avevamo inoltre un asilo, una mensa, e davamo ai poveri anche dei cesti di alimenti. Inoltre, sia a Managua che a Granada eravamo anche impegnate in attività di catechesi”. Prosegue la religiosa: “Per noi la comunicazione del Governo è stata una sorpresa assoluta, abbiamo dovuto lasciare le nostre case rapidamente.
Non abbiamo mai fatto alcun tipo di attività politica, e ci ricordiamo che il presidente Ortega aveva conosciuto Madre Teresa. Il nostro pensiero è sempre stato quello di servire i poveri. Certo, il Paese sta soffrendo, soprattutto la Chiesa, che è perseguitata. Non c’è libertà, ma anche la situazione economica è difficile, e sempre più manca il lavoro”.
Le diciotto suore, che sono di diverse nazionalità, per il momento, resteranno in Costa Rica: “Abbiamo ricevuto un caloroso benvenuto, ringraziamo il vescovo di Tilarán, e anche i sacerdoti, religiosi e religiose, tutti i fedeli. Anche all’ufficio delle migrazioni ci hanno aiutato in tutti i modi. Qui in Costa Rica ci sono molte persone costrette ad abbandonare il Nicaragua. Ci occuperemo in special modo di loro”.
La dittatura più repressiva del Continente. “C’è poco da fare, nessuna organizzazione sfugge alla repressione di Ortega e della sua sposa”, commenta da Madrid Israel González Espinoza, giornalista nicaraguense particolarmente esperto per quanto riguarda il settore ecclesiale, costretto all’esilio da circa due anni nella capitale spagnola, per poter continuare a raccontare ciò che accade nella sua patria. “Oggi, a mio avviso, quella di Ortega è la dittatura più repressiva del Continente, più di Venezuela e Cuba. Abbiamo raggiunto un livello inaudito, e ciò che è stato fatto alle suore di Madre Teresa ne è la prova. Le case delle religiose sono già state occupate dai fedelissimi del regime, già sono state ridipinte, sono state tolte le immagini sacre, hanno voluto cancellare qualsiasi traccia della presenza delle missionarie della Carità”. Il giornalista, brevemente, descrive il livello di repressione ormai raggiunto nel Paese:
“Giornali e televisioni libere quasi non esistono più, il canale della Conferenza episcopale è stato chiuso. In Costa Rica vivono 6mila persone che hanno subito repressione politica, secondo l’Acnur; nelle carceri ci sono 180 detenuti politici; 100 giornalisti hanno abbandonato il Paese. E aumenta la persecuzione alla Chiesa. Alcuni vescovi, come mons. Álvarez, sono costantemente vigilati e sorvegliati. Una pattuglia della polizia staziona davanti all’abitazione del cardinale Brenes, lo segue ovunque vada, e tiene nota delle persone che riceve. Il vicario generale di Managua, mons. Carlos Avilés, ha denunciato qualche settimana fa che ogni giorno vengono registrate nell’arcidiocesi quaranta omelie nelle parrocchie. Vengono spiate anche le lezioni di catechismo, anche quello che dicono i bambini. Siamo a un grado di repressione e brutalità tremendi”.
González è convinto, però, che la persecuzione alla Chiesa sia un autogol per il Governo, mentre “la Chiesa rafforza la sua immagine e la sua credibilità”. In queste settimane, Ortega ha ipotizzato l’arrivo di truppe russe per mettere pressione agli Stati Uniti, “ma ci credo poco. Il Nicaragua non è lontano dagli Usa, ma non ha risorse economiche, non ha il petrolio come il Venezuela. Il tallone d’Achille di Ortega è l’economia. Gran parte delle esportazioni è comunque diretta verso gli Usa. E oggi viviamo una recessione economica causata dallo stesso Ortega, manca il lavoro e la gente emigra, o verso la Costa Rica o verso gli Usa. In tanti fanno parte delle famose carovane, diversi hanno trovato la morte nel rio Bravo”. In ogni caso, conclude, “sono convinto che la via d’uscita debba essere pacifica. È più lenta, ma più efficace, il popolo finora non è caduto nella trappola di usare le armi”.