Le discussioni di questi giorni sulla possibilità che Papa Francesco si rechi a Mosca per incontrare Putin, presidente della Federazione Russa, hanno riportato in primo piano il ruolo della diplomazia vaticana. Il riferimento stesso che Bergoglio ha fatto al ruolo decisivo del Segretario di Stato, card. Pietro Parolin, nell’opera di ricerca di una via di pace nel conflitto russo-ucraino ne sottolinea l’importanza. Per capire il ruolo e le dinamiche che ispirano l’azione diplomatica della Santa Sede “La voce dei Berici” ha raggiunto telefonicamente l’arcivescovo Agostino Marchetto, vicentino, per più di 30 anni in servizio pastorale in numerose nunziature con responsabilità diverse.
Eccellenza, in queste settimane si fa riferimento all’azione che sta svolgendo la diplomazia vaticana e in particolare il segretario di Stato il card. Pietro Parolin nel cercare una soluzione di pace per il conflitto russo-ucraino. Può spiegarci qual è il compito principale del card. Parolin?
La Costituzione apostolica “Praedicate Evangelium”, del marzo scorso, sulla Curia Romana e il suo servizio alla Chiesa e al mondo, tratta anche della Segreteria di Stato o papale. Il verbo che la caratterizza è “coadiuva il romano Pontefice nell’esercizio della sua suprema missione ed è retta dal segretario di Stato”. Qui si definisce il ruolo molto intenso del card. Parolin. Constatiamo come lo stia compiendo con grande zelo e generosità. È una fortuna che sia giovane e quindi abbia ancora energie per affrontare tutte queste fatiche con fierezza e spirito cristiano, con speranza e fiducia nonostante tutto.
Come si muove la Santa Sede nello scacchiere diplomatico?
La Santa Sede è una personalità giuridica internazionale un po’ speciale, tra i membri della platea internazionale, perché non si fonda sulla sua simbolica sovranità territoriale. Secondo quanto detto da San Giovanni Paolo II alle Nazioni Unite in un bellissimo discorso per il 50° anniversario della fondazione, la Santa Sede in virtù della sua missione spirituale deve animare lo sforzo comune per costruire la civiltà dell’amore fondata sui valori universali della pace, della solidarietà, della giustizia e della libertà. La Santa Sede è dunque un soggetto fondamentale nella comunità internazionale per la ricerca della pace e dei diritti umani, con la pazienza di una presenza e di una testimonianza che non si stanca di rifarci nei nostri impegni.
Una delle regole fondamentali della diplomazia vaticana è la ricerca ostinata del dialogo. Come si caratterizza?
Quello che emerge in queste settimane è la pazienza che ci vuole.
È una delle grandi virtù: la Chiesa non si stanca mai.
Aiuta in questo anche uno stile diplomatico che deve seguire certe norme.
Papa Francesco nel cercare il dialogo mostra anche di parlare in modo schietto. Recentemente ha richiamato il patriarca Kirill con parole forti. Quanto è difficile bilanciare il dialogo e la schiettezza?
C’è, certo, un linguaggio spontaneo, ma bisogna anche capire che di fronte a una personalità forse si può dire la stessa cosa con altro termine. Si deve tener presente la sensibilità dei personaggi internazionali e ricordare il Veritatem facentes in caritate. Questo significa che non dobbiamo rinunciare alla verità, ma nel dirla bisogna fare del nostro meglio per non esprimere qualcosa che ferisca senza che ci sia necessità di farlo. Nella diplomazia c’è tutto uno stile che va tenuto presente.
Da questo punto di vista, Papa Francesco certe volte non è molto diplomatico…
Lui è lui. È straordinario e un altro non potrebbe dire quello che lui dice. D’altra parte ciascuno porta al sommo Pontificato, quando vi è eletto, la sua storia e le sue origini.
Il Papa parlando della diplomazia ha affermato che è “l’arte del possibile”. Allora è anche prendere atto che in alcuni momenti non si può fare nulla?
Il giudizio ritorna alla persona. Uno può pensare che in questo momento non si possa fare nulla, un altro invece può pensare che si possa rilanciare. È il caso del Santo Padre con la sua possibilità di andare a trovare Putin a Mosca. Egli ha fatto quello che lui pensava si dovesse fare. C’è la difficoltà di combinare il rispetto della legislazione internazionale (è la tesi sostenuta dall’Ucraina e dai suoi alleati) e la convinzione di una delle parti in conflitto di essere (questa è la Russia) minacciata da uno Stato confinante, non rispettoso delle sue minoranze. Che sia vero o meno questa è un’altra questione. Tale è il rebus nel quale ci troviamo. È evidente che il Papa possa pensare di andare a Mosca, perché è lì che è sorta la convinzione che si doveva intervenire militarmente senza badare a tutte le conseguenze che ci sono.
Un ruolo molto pesante lo sta giocando il patriarca Kirill. Quanto le relazioni diplomatiche sono condizionate anche dal fattore religioso?
Non si può negare che la visione che ha la Chiesa ortodossa orientale sulle relazioni Chiesa-Stato, per intenderci, sia diversa da quella presente nella Chiesa cattolica. C’è stato un momento decisivo, all’inizio del secondo millennio, con Papa Gregorio VII e la cosiddetta lotta per le investiture, per la libertas ecclesiae, con l’imperatore che non poteva più pretendere di eleggere i vescovi. E lì c’è stato un momento fondamentale di libertas ecclesiae che ha “iniettato nel sangue ecclesiale” questo senso di libertà e il fatto che noi non siamo lo Stato. Nella Chiesa ortodossa, invece, queste relazioni sono diverse: c’è un legame molto più forte con esso (molti lo definiscono sinfonia) e nel caso, di Mosca, c’è addirittura una identificazione.
Per Papa Francesco l’altro non è mai un nemico ma un fratello. Questo approccio è utile alle relazioni diplomatiche o le ostacola?
La fratellanza umana, quando si esprime, crea un humus di umanità che non può non aiutare nel dialogo. È proprio una delle caratteristiche della diplomazia. È un senso di benevolenza verso colui con cui parlo. Se incontro una persona che non conosco e le sorrido, in genere lei ricambia. C’è un fondamento di umanità da utilizzare anche per le relazioni diplomatiche.
*direttore “La voce dei Berici”